sono dei metodi alternativi di composizione delle controversie, che differiscono dal ricorso alla giustizia ordinaria.

Le Alternative Dispute Resolution

Pillole Dal Mondo

Le ADR, acronimo di alternative dispute resolution, sono dei metodi alternativi di composizione delle controversie, che differiscono dal ricorso alla giustizia ordinaria. Si sono ampiamente diffuse proprio per le loro caratteristiche, ossia la mancanza di un sistema rigido e di principi codificati all’interno dei quali far rientrare ogni istituto, come accade nei paesi di civil law. All’interno di esse è presente una vasta categoria di tecniche e procedimenti tra cui: mediazione, conciliazione, Negoziazione e arbitrato. Esse sono caratterizzate da tecniche semplificate e limitate sia nei tempi che nei costi.

Le prime forme di questi metodi nascono con la diffusione delle prime “idee”, generate dalla nascita di alcuni movimenti per i diritti civili, in particolare come reazione alla guerra del Vietnam, soprattutto nel settore della mediazione familiare, sociale e del lavoro. Nel 1976, a San Francisco, nacque il Programma Community Boards, basato essenzialmente sui rapporti tra vicinato, stabilendo quali fossero le tecniche di risoluzione delle controversie per i membri della comunità. Tali tecniche davano più importanza al rafforzamento dei rapporti tra le parti piuttosto che permettere il raggiungimento di un accordo. Esso si applicava, prevalentemente, su questioni attinenti a danni alla proprietà, conflitti tra inquilini e proprietari. Anche in Francia si diffuse una variante al programma nordamericano, le Boutiques Droit. Era un progetto di mediazione sociale che nacque a Lione intorno agli anni’80 dall’idea di J.P.Bonafè-Schmitt, sociologo di diritto. Finalizzato nel ristabilire la comunicazione, di partecipare alla ricostruzione del tessuto sociale e di creare nuove forme di solidarietà e strutture “vicine” agli abitanti, permetteva di risolvere, nelle migliori condizioni, i conflitti nati nella vita quotidiana.

Con queste tecniche, che attenevano, prevalentemente, ai c.d. conflitti bagattellari, si è sviluppato un sistema di soft justice, cioè di una giustizia sociale informale. L’obiettivo era quello di individuare un terzo imparziale, detto mediatore, che aiutava a trovare “insieme” una soluzione alla loro controversia. Egli non risaliva a monte della controversia ma prendeva semplicemente atto della situazione che gli si presentava e cercava di favorire la soluzione migliore possibile per il futuro. Queste tecniche si svilupparono, prevalentemente, fuori dalle istituzioni giudiziarie statali, inserite in un contesto di “privatizzazione” di alcune materie, valorizzando l’autonomia privata

Come poc’anzi evidenziato, le prime forme di ADR nacquero negli Stati Uniti intorno agli inizi del XIX secolo e, successivamente, si diffusero anche in Europa, con l’obiettivo di snellire il carico giudiziario. Innumerevoli sono le ipotesi in cui la legislazione interna, ha imposto alle parti di ricorrere ai procedimenti arbitrali o, comunque, alle c.d. ADR in luogo del procedimento dinanzi al giudice. In particolare, negli Stati Membri dell’Unione Europea, la mediazione si sviluppa in fasi differenti. Alcuni Stati Membri dispongono di un’estesa legislazione di norme procedurali in materia; mentre in altri, gli organi legislativi hanno mostrato scarso interesse per una regolamentazione della mediazione.

Tuttavia, in taluni Stati esiste una solida cultura della mediazione, basata principalmente sull’autoregolamentazione. La stessa Unione Europea si è servita di questi strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, per poter riuscire a disciplinare alcuni ambiti ben precisi. Ad esempio, con la Direttiva 2013/11 del Parlamento Europeo e del Consiglio ci si prefigge l’obiettivo di pervenire ad un’armonizzazione dei sistemi nazionali di Consumer ADR, individuando i principi comuni ed in particolare i requisiti e gli standards di qualità delle procedure e degli organismi incaricati della loro gestione. L’obiettivo di questa direttiva è quello di rafforzare il mercato interno, laddove l’esistenza di strumenti di risoluzione delle liti accessibili, efficaci e a basso costo per consumatori ed utenti, è considerata fattore fondamentale di accrescimento della fiducia degli stessi nel funzionamento del mercato stesso. Tale Direttiva è stata recepita dall’ordinamento italiano con il D.L. 6 agosto 2015 n.130, con la quale si è stabilito che le disposizioni si applicano con riferimento alle procedure volontarie di composizione stragiudiziale, proprio per quanto riguarda le materie di consumo, facendo salve le disposizioni in materia di mediazione obbligatoria del D.L. 28/2010. Anche per quanto riguarda le materie finanziarie si è cercato di applicare tali misure alternative nel rispetto delle Direttive europee. La Direttiva 2013/50/UE, che ha modificato la Direttiva 2004/109/CE, ha lo scopo di alleggerire e ridurre gli oneri amministrativi per le società quotate, garantendo una maggiore trasparenza degli assetti proprietari delle società.

Anche in Italia, recentemente, l’allora Ministro Orlando, ha cercato di incentivare l’applicazione di tali procedure alternative, ed in particolare della Negoziazione, garantendo incentivi fiscali. Il decreto è stato emanato in attuazione della L. 132/2015 recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria”, che stabilisce le modalità e la documentazione da esibire a corredo della richiesta di credito di imposta, nonché i controlli da effettuare sulla sua autenticità.

Tali modalità di risoluzione alternative sono, tutt’oggi, diffuse in numerosi Stati, tutte col medesimo obiettivo, ridurre l’enorme carico giudiziale che grava sui Tribunali.

In Germania, il codice di procedura tedesco, all’art 278, disciplina la figura del Guterichter, ossia “giudice-conciliatore” o “giudice – mediatore”. Nel corso del procedimento civile, infatti, per risolvere la controversia in modo amichevole, il Tribunale raccoglie il consenso delle parti per una udienza di conciliazione, che viene delegata ad un “giudice conciliatore”, il quale non è autorizzato ad assumere alcuna decisione. Il giudice conciliatore è un magistrato togato dell’ufficio che ha delle specifiche competenze tecniche in materia di mediazione (frutto di corsi di specializzazione e formazione dedicati) e aiuta le parti a trovare da sole, sotto la loro responsabilità, una soluzione ragionevole della lite, mediante accordo. È un giudice neutrale che non può decidere la causa e non può offrire consulenza legale sul caso sottoposto: può solo fare da mediatore e gestire l’udienza di conciliazione, dove devono essere presenti gli avvocati. L’udienza di conciliazione è regolata dal principio della “libertà del metodo” e, dunque, il giudice conciliatore può scegliere egli stesso le tecniche per mediare il conflitto, non esclusa la mediazione civile. Proceduralmente, la fase di conciliazione presuppone il consenso delle parti, raccolto dal Tribunale. Quando le parti hanno prestato il consenso, il Tribunale rinvia le parti davanti al giudice conciliatore che, studiato il fascicolo, le convoca davanti a sé. L’udienza è confidenziale e informale; l’atmosfera è tranquilla e vengono offerti caffè.

 Avvocati e giudici non indossano la toga. Il giudice conciliatore, diversamente dal giudice del processo, può anche avere colloqui separati con le singole parti. Tale procedura, inoltre, non ha costi per i litiganti che devono solo pagare il costo di una udienza ai loro difensori. Il giudice non è pagato; per ogni fascicolo in cui svolge la mediazione, ha un fascicolo contenzioso in meno (che non gli viene assegnato). Se le parti raggiungono un accordo, il giudice conciliatore lo mette a verbale e definisce il procedimento. Oltre a ciò, il tribunale può proporre alle parti una mediazione o un altro procedimento stragiudiziale di risoluzione della controversia e, nel caso in cui le parti accettino detta proposta, può decidere anche la sospensione della procedura.

Anche la Spagna,nel 2012, ha recepito la direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, fissando un quadro minimo per l’esercizio della mediazione, fatte salve le disposizioni approvate dalle Comunità autonome. La normativa spagnola prevede la possibilità di comunicare alle parti, nell’udienza preliminare, della possibilità di fare ricorso alla mediazione per trovare una soluzione alla controversia. Il giudice ha la possibilità di invitare le parti a procedere alla mediazione al fine di trovare un accordo che ponga fine al procedimento giudiziario e può concedere alle stesse la possibilità di chiedere la sospensione del processo per fare ricorso alla mediazione o all’arbitrato. Il settore in cui è maggiore il ricorso alla mediazione è quello delle cause familiari ed in generale, qualora sia proposta dal tribunale, la procedura è gratuita. Con il Real Decreto-ley 5/2012 del 5 marzo sulla mediazione civile e commerciale, trasformato in legge con la Ley 5/2012 de 6 de juilio, de mediaciòn en asuntosciviles y mercantiles, anche in Spagna si è dato attuazione alla Direttiva 52/2008/ CE sulla mediazione. Essa era tra quei paesi non aveva ancora notificato alla Commissione le misure prese in attuazione alla direttiva incorrendo cosi in una procedura di infrazione che implicava che lo Stato si mettesse volontariamente in regola con il diritto dell’Unione. Prima del decreto la legislazione, infatti, non era disciplinata dal legislatore civile di carattere generale, ma le parti potevano comunque farvi ricorso richiedendo la sospensione del procedimento. L’ambito applicativo era limitato solo alle parti con la facoltà di chiedere al giudice di sospendere il procedimento per sottoporsi alla procedura, nonché di avviare il procedimento di comune accordo a mediazione conclusa. Partendo dal presupposto che dagli anni ‘70 del secolo scorso sono stati elaborati sistemi di risoluzione alternativa dei conflitti, tra questi si evidenzia la mediazione, che ricoprono grande importanza nella prospettiva di una “degiuridicizzazione” dei conflitti. Tra i vantaggi di tale procedura vi sono quelli di dare soluzioni pratiche, effettive e redditizie ai conflitti insorti tra le parti, configurandosi cosi come un’alternativa al processo, capace, però di mantenere il rapporto tra le parti. Questo modello si basa sulla volontarietà, in particolare quella delle parti, con l’obiettivo di fissare le basi e favorirne la diffusione rispetto alla risoluzione giudiziale del conflitto. Un procedimento snello e flessibile che consente che i soggetti che siano implicati nel processo determino loro le sue fasi fondamentali. Inoltre, la mediazione potrà essere svolta da uno o più mediatori qualora per la complessità della materia o per la convenienza delle parti si necessita la presenza di più mediatori che lavoreranno in forma coordinata.

I principali punti con l’ordinamento italiano sono la riservatezza, carattere imprescindibile per la buona riuscita della mediazione e, a seguire, l’imparzialità del mediatore, la possibilità di ottenere il titolo esecutivo. Le differenze però non passano inosservate, poiché toccano aspetti che contribuiscono a delineare la veste di mediazione di ciascun Stato. Mentre in Italia è prevista l’obbligatorietà del tentativo in determinate materie a pena di improcedibilità, nella legge spagnola non vi è una simile previsione dove la volontarietà del procedimento è preservata, con l’eccezione dei casi di obbligatorietà già previsti dalla legge processuale e civile o dall’obbligatorietà prodotta ex contractu della volontà stessa delle parti che abbiano inserito nel contratto una clausola di mediazione. Anche i criteri di determinazione dei costi di mediazione sono differenti poiché in Italia è stata introdotta una disciplina di natura proporzionale, mentre quella spagnola è alquanto generica, lasciando così ampia discrezionalità alle Istituzioni di mediazione, salvo gli aggiornamenti attuativi. 

In Francia, con la” Rapport de la Commissionsur la repartitiondescontentiteux”  ci si è voluti ispirare alla prassi nord-americana, conosciuta come Diritto Collaborativo, per suggerire nella Francia la nascita di una nuova procedura, “Procedure partecipative”, ossia una nuova modalità di risoluzione delle controversie mediante l’assistenza di un avvocato. Tale attività di collaborazione prendeva spunto dalla “Carta di Collaborazione”, che in Italia, invece, prende il nome di accordo di Negoziazione. Il suo cammino inizia nel 2008 con il rapporto “L’ambition raisonnée d’une justice apaisée” di Serge Guinchard, presidente della Commissione per la ripartizione del contenzioso. In questo corposo documento si specifica che la procédure participative è stata ispirata ai membri della Commissione dal diritto collaborativo nordamericano. Ma l’articolazione dell’istituto che comprende una fase extragiudiziaria nella quale può essere eventualmente investito un perito della soluzione di una controversia ha radici molto antiche. Nonostante ciò la commissione di Guinchard notò che il procedimento era caratterizzato da evidenti limiti sia riguardo ai costi che all’assistenza dell’avvocato. Infatti, nel suo rapporto Guinchard valutò che la Commissione si ispirava alla prassi del Nord America conosciuta come “diritto collaborativo”. L’obiettivo che si era posto Guinchard era quello di incoraggiare le parti a una soluzione negoziata della controversia, mantenendo, così, un accesso più efficace alla giustizia; creando un processo partecipativo di Negoziazione assistita tramite l’avvocato. Le parti del processo partecipativo, assistite dai loro avvocati si impegnavano in esso volontariamente prima di procedere a qualsiasi contenzioso. La caratteristica di questa procedura è quella di far si che le parti collaborino in buona fede per la risoluzione negoziata della controversia, tale l’impegno produrrà le medesime conseguenze procedurali che la Corte Suprema ha riconnesso alle clausole preventive di conciliazione. Il contratto partecipativo, a causa delle recenti riforme, ha previsto la sospensione del termine di prescrizione durante il corso del processo partecipativo, tranne che nelle materie in cui tali accordi sono esclusi dalla legge.

Allo stesso modo negli Stati Unita d’America, la Negoziazione, proposta dalla scuola di Harvard, si basa sul presupposto che “negoziare conviene”. Secondo questa tesi si afferma e si sviluppa il metodo collaborativo dell’avvocato americano Stuart Webb che viene considerato come il fondatore. Egli riprende il modello del problem solving, aggiungendovi la presenza obbligatoria degli avvocati, l’obbligo che le parti assumono di collaborare per trovare un accordo senza ricorrere al giudice e l’obbligo degli avvocati di rinunciare all’incarico se una parte interrompa le trattative ricorrendo al giudice. Stuart Webb fondò nel 1990 un Istitute con quattro avvocati, che divennero presto nove, diffuse la sua intuizione fra gli avvocati del Minnesota e inviò la famosa lettera del 14 febbraio 1990 al Giudice Sandy Keith della Corte Suprema del Minnesota,  nella quale illustrò il suo modello. Il metodo valorizzava la capacità analitica e l’abilità degli avvocati di trovare soluzioni insieme e non l’uno contro l’altro. Infatti, era un metodo basato sul rapporto “win – win”, (vincitore – vincitore), ossia alla ricerca di soluzioni condivise che determinassero la “vittoria” di entrambe le parti, a differenza di quanto avviene nei processi giudiziari, in cui, solitamente, alla parte che vince si contrappone quella soccombente. Ciascun avvocato, ricevendo il cliente, illustrava tutte le strade percorribili. Si procedeva così, ad un incontro a quattro per poter individuare i principi del negoziato. La procedura era ed è regolata da un accordo scritto fra le parti e gli avvocati. Esso prevede l’assunzione per le parti di obblighi di collaborazione senza fare ricorso al giudice, di riservatezza, inutilizzabilità processuale e, per gli avvocati, l’assunzione dell’obbligo di non assistere più il proprio cliente nel caso che una parte proponga azione giudiziaria. È di carattere facoltativo e la domanda rimane proponibile, nonostante sia stata presentatai; inoltre,  gli avvocati possono rinunciare all’incarico e vengono sostituiti da negoziatori esperti del processo. Webb rese ulteriormente noto il suo modello nei primi anni ’90 in una conferenza organizzata a Washington D.C. e diresse un gruppo di lavoro composto da avvocati e altri professionisti (tra cui psicologi) denominato Collaborative Law Group. Negli anni ’90 fu istituito l’American Istitute of Collaborative Professionals(AICP), che in seguito alla diffusione del modello in Canada è stato denominato International Academy of Collaborative Professionals (IACP), che ha ulteriormente diffuso la cultura della Negoziazione collaborativa con la pubblicazione trimestrale “The Collaborative Revie”, arrivando ad annoverare 3.000 membri distribuiti in Canada, Regno Unito, Svizzera, Austria e Nuova Zelanda. Il modello si collega all’ideologia individualistica sottostante al sistema facilitativo che reputa gli individui separati fra loro e non interconnessi, con l’introduzione dell’obbligo di collaborare con correttezza. Come la Negoziazione facilitativa, anche il negoziato collaborativo si ricollega alla «teoria dei giochi», al «dilemma del prigioniero» che costringe le parti a scegliere se competere o collaborare e alla «teoria dell’equilibrio Nash» nella quale negoziare conviene.

Scopri il nostro Social Network
dove puoi richiedere assistenza e consulenza legale gratuita

Comparazione con la Negoziazione nell’ordinamento italiano

Il modello del negoziato collaborativo americano, che non ha però una propria regolazione giuridica specifica a differenza della Negoziazione assistita nell’ordinamento italiano, appare compatibile con esso, nel quale la prassi di intraprendere negoziati fra gli avvocati che assistono le parti è da sempre ampiamente diffusa, senza essere però preceduta da una convenzione di Negoziazione e rimanendo regolata dalle norme di diritto comune sul contratto e in particolare sulla transazione. Le differenze e le peculiarità che intercorrono tra la disciplina che è presente nel nostro ordinamento e quella statunitense sono alquanto evidenti. La mancanza, nell’ordinamento nord-americano, di una regolazione giuridica comportò molteplici conseguenze. Prima fra tutti l’impossibilità per le parti, che siano in condizioni di bisogno, di accedere a forme di patrocinio gratuito, il non sospendere la prescrizione per l’intera durata del procedimento, diversamente dall’ordinamento italiano in cui la richiesta di Negoziazione sospende i termini di prescrizione per la domanda giudiziale. La non irricevibilità della domanda giudiziale eventualmente presentata nel corso del procedimento collaborativo (potendo solo, l’accordo convenzionale, prevedere di non adire il giudice durante lo svolgimento del procedimento) ed infine la mancanza di collaborazione con la giurisdizione ordinaria. Innanzitutto, negli Stati Uniti, il fenomeno si basa su una Carta di collaborazione, denominata «partecipation agreement» oppure «collaborative stipulation», ovvero un accordo che obbliga le parti e i loro avvocati a compiere ogni sforzo per giungere ad una soluzione consensuale: più in particolare, i soggetti s’impegnano a cooperare con lealtà e trasparenza nella ricerca di una soluzione concordata  attraverso lo svolgimento di una serie di incontri, il calendario dei quali è già prefissato nell’accordo iniziale in relazione alle esigenze di ciascuno.

Differentemente da quanto accade nel nostro ordinamento, in cui si parla di «Convenzione di Negoziazione» come quell’accordo tramite il quale le parti decidono “di cooperare in buona fede e lealtà”, come è presente ai sensi dell’art 2 del D.L. 132/2014, al fine di risolvere in via amichevole una controversia, tramite l’assistenza di avvocati, regolarmente iscritti all’albo ovvero facenti parte dell’avvocatura per le Pubbliche Amministrazioni. Precedentemente ad esso, ci sarà un incontro tra la parte e l’avvocato, grazie al quale la stessa parte potrà formulare un invito all’avvocato, con cui quest’ultimo si obbligherà a garantire tutte le informazioni utili al proprio cliente. Precisando, inoltre, anche tutti gli obblighi di trasparenza; al fine di poter mantenere un comportamento corretto soprattutto nel rispetto della buona fede. Mentre, per quanto riguarda l’ordinamento statunitense, anche in questo caso, ogni parte è assistita da un avvocato, ma sono le prime personalmente, pur consigliate e sostenute da un professionista, a valutare le differenti questioni e a formulare le proposte, cercando di instaurare un dialogo che sia, quanto più possibile, costruttivo, sino a trovare la soluzione che meglio si addice al loro caso. La “Negoziazione” non si realizza, infatti, sfruttando e invocando posizioni di forza e celando alla controparte le proprie finalità, ciò che non accade neppure nell’ordinamento italiano, ma si gioca a “carte scoperte” con lealtà e trasparenza, condividendo le informazioni utili alla gestione della questione, senza necessità di richieste formali. A differenza del procedimento italiano, in cui vi è maggiore formalità, poiché oltre agli inviti, gli stessi avvocati devono certificare l’autografia delle parti, poiché si tratta di un vero e proprio potere di autentica limitato all’oggetto e al fine per cui la sottoscrizione è rilasciata, non equiparando l’avvocato ad un pubblico ufficiale. Quest’attività non dovrà essere solamente formale, ma dovrà rappresentare un impegno concreto in virtù del quale, effettivamente, potrà essere raggiunta una soluzione che non prevede vincitori e vinti, ma soggetti che hanno saputo guardare all’effettivo interesse di ciascuno senza inutili prese di posizione.

Nell’ordinamento americano, essendo che le proposte vengono presentate direttamente dalle parti, tale tecnica è caratterizzata anche da soluzioni dotate di elasticità e fantasiosità, consentendo a tutte le parti coinvolte, attivamente nella ricerca di una soluzione positiva e propositiva, di porre fine alla vertenza con un certo senso di soddisfazione. Tale metodo si rileva particolarmente apprezzabile per gestire, soprattutto, la crisi familiare, poiché rappresenta quel potenziale per promuovere una migliore comunicazione e una maggiore flessibilità tra soggetti coinvolti e, in particolare, tra i genitori, circostanza anche assai propizia per la tutela e l’interesse dei figli minori. Questione centrale per la buona riuscita della tecnica è proprio la formazione degli avvocati, i quali non solo dovranno rispettare le linee guida fornite, ma dovranno avere un’adeguata preparazione, idonea a consentire loro di distaccarsi dagli insegnamenti ricevuti in precedenza e di utilizzare con dimestichezza le tecniche di negoziazione e le nuove metodologie di lavoro.

All’interno poi del partecipation agreement i professionisti coinvolti s’impegnano a non assistere le parti nell’ipotetico futuro giudizio, qualora non si sia raggiunto un accordo, circostanza che non solo impedisce loro di abbandonare le trattative senza riflettere con la dovuta cautela e di minacciare di intraprendere la via giudiziale, ma li rende maggiormente propensi a facilitare il raggiungimento dell’accordo. L’esperienza della pratica collaborativa dimostra, infatti, come gli avvocati che non sono contrattualmente vincolati a esimersi dal sottoporre la questione a un giudice, decidono troppo in fretta di optare per tale soluzione, con la conseguente necessità di pattuire tale divieto di assistenza nel successivo giudizio all’interno della carta di collaborazione. Sotto altro versante, la consapevolezza per le parti di doversi eventualmente rivolgere a differenti professionisti, da un punto di vista psicologico riveste una notevole importanza, perché le spinge ad un atteggiamento particolarmente collaborativo, teso a cercare con impegno una tesi concordata.

Questo rappresenterebbe per le parti un maggior onere economico e dal notevole dispendio di tempo ai quali sono esposti i soggetti, costretti a ricorrere a differenti difensori rispetto a quelli assistiti in precedenza. In realtà l’eventuale abbandono delle trattative non è visto come una perdita per il professionista, bensì come una maggiore fonte di guadagno, elementi tutti che inevitabilmente ricadono sull’atteggiamento globale dei professionisti e, indirettamente, anche sulle parti. Talvolta, addirittura, l’avvocato potrà dissuadere il cliente dall’effettuare una puntuale, seria e completa attività di disclosure, adottando ogni cautela e ogni attenzione per non fornire all’ avversario elementi che potrebbero rilevarsi utili “armi” da impiegare, a seguito del possibile naufragio delle trattative, nella fase stragiudiziale in senso lato. Nell’ordinamento italiano, invece, in caso di mancato accordo, gli avvocati redigono una dichiarazione di mancato accordo, nella quale analizzando la lite, puntualizzando la mancata soluzione, si dà, così, la possibilità alle parti di poter ricorrere al giudice.

Autore: Benedetta Russillo

Sono una giovane laureata in Giurisprudenza, da quasi un anno ho terminato la pratica forense, e ad oggi  sono impegnata nello svolgimento di un Master di II livello in “I nuovi professionisti privacy DPO ( Data Protection Officer): il responsabile della protezione dei  dati personali e i privacy specialist” presso l'Università Niccolò Cusano di Roma. Da sempre appassionata del mondo dei crimini digitali e della cybersecurity, nonchè della applicazione del diritto penale con queste nuove frontiere del settore tecnologico.

 

Commenta e partecipa alla discussione

Entra e scopri The Knowledge
I tuoi professionisti sempre a portata di mano

Commenti

Ancora nessun commento