lungo cammino delle misure di prevenzione

Il lungo cammino delle misure di prevenzione

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1.   Uno sguardo d’insieme

1.1.        L’interesse dell’ordinamento

Il lungo cammino delle misure di prevenzione: Se è vero che il reato viene ad atteggiarsi come un fenomeno gravemente disfunzionale rispetto all’assetto sociale di una determinata comunità, pare evidente come l’ordinamento non possa che coltivare un interesse primario affinché un simile illecito non abbia a realizzarsi; e ciò, a maggior ragione, ove si consideri che, una volta che il fatto sia stato commesso, non risulterebbe comunque possibile fare ricorso ad una misura idonea a ricostruire l’integrità del coinvolgimento che si mirava a tutelare. Non potendo la pena svolgere una funzione compensatrice dell’offesa arrecata, il suo ruolo essenziale deve essere valorizzato in un momento necessariamente anteriore, in vista dell’obiettivo di impedire e di prevenire la commissione dell’illecito[1]. Ed è questo il tratto tipico e saliente dell’azione di prevenzione generale che consiste appunto nel distogliere la generalità dei consociati dal commettere delitti[2].

1.2.        La funzione della pena e il ruolo dell’uomo tra neutralizzazione e rieducazione

Ed infatti, con il passare del tempo, la pena è andata sempre di più ad arricchirsi di contenuti contribuendo ad implementare il codice comportamentale della collettività[3]. Questo risulta evidente se si considera che alla minaccia della sanzione segue, in caso di violazione della regola di condotta, l’applicazione della prevista misura all’autore del reato. Il momento retributivo – quale stigmatizzazione negativa dell’illecito realizzato – conserva un suo ruolo ben preciso, tanto che la persona umana viene ad essere un fine, e non un mezzo, da utilizzare per il raggiungimento di scopi diversi. Si è venuta potenziando l’idea della prevenzione – speciale od individuale – mirata alla creazione di un complesso di misure neutralizzatrici, terapeutiche e rieducativo-risocializzanti, tese ad impedire che il singolo incorra o ricada nel delitto[4]. E se anche la pena – con i suoi contorni intimidativo-emendativi[5] – poteva favorire il “trattamento”, in quanto volta al riadattamento di chi ne è colpito, non appare dubbio che la misura di sicurezza – così come disegnata dal legislatore del 1930 agli artt. 199-240 c.p. –, abbia circoscritto una funzione di prevenzione speciale che riaffiorava sia per la neutralizzazione del reo sia per l’attuazione di un processo di risocializzazione. Si è soliti distinguere, quindi, da un lato, la rieducazione vera e propria – prevenzione special positiva – che mira ad evitare il compimento di ulteriori illeciti nel momento in cui il reo viene reimmesso nella società civile, ricorrendo a tecniche di risocializzazione vera e propria; dall’altro lato, l’intimidazione-neutralizzazione del soggetto ritenuto pericoloso (prevenzione special negativa)[6].

1.2.1.     Un continuum mobile nell’area della sicurezza

La pena, pur contenendo elementi accessori in cui si possono intravedere fattori di prevenzione speciale, punisce un soggetto che ha violato i precetti penali senza che fosse affetto da patologie che ne turbassero la reattività agli stimoli criminogeni; la misura di sicurezza, invece, interviene sull’autore del reato in quanto egli ha agito in condizioni fisiopsichiche anormali ed a lui non rimproverabili, sempre che sia giudicato in concreto pericoloso per la collettività[7].
Quando si parla di misure di sicurezza ci si riferisce ad un tipo di sanzione criminale intesa in senso lato, che si affianca nel sistema del doppio binario alla pena intesa in senso stretto[8].
Le misure di prevenzione, invece, non appartengono al novero delle sanzioni criminali, ma a loro volta si collocano in una sorta di continuum mobile rispetto all’area delle misure di sicurezza. In effetti, già dal nome, evocano una somiglianza che non esclude profonde differenze, ma che esprime l’idea di una finalità condivisa. 

1.3.        Dal garantismo penale ad un’evoluzione securitaria

I termini “sicurezza” e “prevenzione” possono essere considerati come intercambiabili[9], considerando che le misure di sicurezza sono poi destinate, per l’appunto, a prevenire la commissione di futuri reati da parte di soggetti pericolosi. 
L’originalità del nostro sistema penale è di essere composto da due sottosistemi impostati secondo tecniche normative diverse: da un lato, il sottosistema penale, informato al rispetto dei principi costituzionali e garantisti; dall’altro, il sistema di polizia e di ordine pubblico, fondato sulle istanze della difesa sociale. «In tal modo i nostri legislatori hanno potuto operare una sostanziale dissoluzione delle principali garanzie penali e processuali con dei semplici giochi di parole. Chiamando misure di prevenzione, o di sicurezza, sanzioni restrittive o limitazioni processuali della libertà simili alle pene assoggettando il tutto a regimi totalmente liberi da impacci garantisti»[10].
Le misure di prevenzione costituiscono dei provvedimenti con i quali si incide in varia misura sulla libertà personale e vengono asportati beni di proprietà di alcuni soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica. Sono quindi legate ad una forma di pericolosità, ma si tratta di una pericolosità che ha per oggetto un ambito ancor meno definito di quanto non sia quello che caratterizza le misure di sicurezza. Per queste si parla di pericolosità criminale, che si identifica nella probabilità che il soggetto commetta nuovi reati; nel caso delle misure di prevenzione, invece, non si può parlare di pericolo per la commissione di nuovi reati, perché il presupposto della loro applicazione non è la commissione di un reato. Ci si riferisce quindi ad un contesto più labile: la sicurezza pubblica[11].
Uno dei fattori che, ancora oggi, condiziona le scelte di politica criminale è costituito dall’accento posto sulla percezione del senso di «(in)sicurezza collettiva»[12]. Spesso è la riflessione sulla sicurezza urbana a fare da amplificatore del senso di insicurezza sociale, perché la criminalità tocca più direttamente i consociati e, anche se non vengono commessi reati, sono le condizioni di degrado di alcuni luoghi a ridurre la percezione della sicurezza, in un corto-circuito che, al degrado, collega il pericolo di vittimizzazione. In quest’ottica, si è mosso anche il c.d. decreto Minniti[13], che ha posto l’accento sugli strumenti preventivi e repressivi per migliorare la sicurezza nelle città, sebbene i contesti urbani siano oggi molto più sicuri di un tempo: non è con il potenziamento delle misure di prevenzione a contenuto punitivo che si migliorano le condizioni di sicurezza[14].
Importante in tal senso è non confondere le regole su cui il diritto penale moderno si fonda e i fini che gli si attribuiscono. Significativi sono gli esempi di “confusione”, anche e soprattutto per quanto riguarda le misure di prevenzione: basti pensare al pericolo del brigantaggio, al terrorismo politico, alla mafia o all’ordine pubblico. Le giustificazioni date all’inasprimento sanzionatorio o alle limitazioni delle garanzie costituzionali in queste legislazioni appaiono tutte equivalenti e tutte dimenticano il principio per cui «la pena è giustificata da quello che uno fa e non da quello che uno è»[15];  il rischio è che, così facendo, le misure di prevenzione assumano una funzione vicaria del procedimento penale, di cui non condividano le garanzie.
Emerge quindi il tratto comune tra pena, misura di sicurezza e misura di prevenzione: sono misure negative, in grado di neutralizzare la persona o comunque di porla a disposizione dell’autorità per sottometterla ad eventuali trattamenti.  
Le misure di sicurezza, intese come provvedimenti applicabili a soggetti considerati, a vario titolo, socialmente pericolosi, ed aventi la finalità di prevenire la commissione di reati futuri, vengono tradizionalmente suddivise in due categorie: quelle post delictum, che presuppongono, oltre alla pericolosità sociale, anche l’avvenuta commissione di un fatto costituente reato, e quelle ante delictum, o “misure di prevenzione”, che tendono ad evitare la commissione del primo delitto[16].

2.   La repressione penale degli oziosi e dei vagabondi

2.1.        Il delitto di vagabondaggio

Le misure di sicurezza ante delictum vantano, nel nostro ordinamento, una tradizione preunitaria, risalente già alle codificazioni dello Stato Sabaudo, le quali costituirono l’asse portante di quello che sarà, successivamente, il sistema preventivo degli stati liberali che si concentrerà, prevalentemente e prioritariamente, sulla repressione penale degli oziosi e dei vagabondi[17].
Un primo cenno ottocentesco è dato dal codice penale napoleonico del 1810 – che sarà recepito, e mantenuto successivamente, nei territori italiani controllati dalla Francia – in cui, all’art. 269, si elevava a delitto il vagabondaggio e, all’art. 270[18], veniva offerta una definizione di vagabondi. Il quadro normativo era completato dall’art. 271, che prevedeva la detenzione da tre a sei mesi del legalmente dichiarato vagabondo e la di lui messa a disposizione, da parte del Governo, per il tempo determinato da quest’ultimo. 
A ben vedere, si notava una interconnessione stretta di tre momenti. Il primo momento era rappresentato dalla dichiarazione legale di vagabondaggio, affidata all’autorità amministrativa, che implicava le prescrizioni di adeguarsi ad un regime di vita regolare; il secondo era costituito dalla detenzione, che rappresentava la pena per l’inosservanza delle prescrizioni contenute nell’atto dell’autorità amministrativa; il terzo, dopo l’esecuzione della pena, che consisteva nella messa a disposizione del soggetto a favore del Governo per il tempo determinato[19].

2.1.1.     … nella tradizione preunitaria

Gli stessi tre momenti si rinvengono nel codice Albertino italiano del 1839 e, ancora nel codice Sardo del 1859.
La novità del codice Albertino risiedeva nell’ampliamento della platea dei destinatari della misura in esame, con una diversa definizione, rispetto a quella di derivazione francese, di oziosi e vagabondi. L’articolo 450, collocato all’interno del Capo III del codice, nella parte dedicata ai delitti contro la tranquillità, considerava come oziosi «coloro i quali, sani e robusti e non provveduti di sufficienti mezzi di sussistenza, vivono senza esercitare professione, arte o mestiere e senza darsi ad altro lavoro». Successivamente, all’art. 451, si aggiungevano i vagabondi, cioè «coloro che vagano da un luogo all’altro aspettando l’esercizio di una professione e di un mestiere, ma insufficiente per sé a procurare la loro sussistenza».
Ciò che emerge dall’analisi del suddetto quadro normativo è che l’oggetto della punizione non era propriamente una condotta, ma piuttosto un modo di essere: «si punisce infatti un soggetto non per quello che ha fatto, ma per quello che egli propriamente è»[20].

2.2.        La garanzia giurisdizionale del codice Albertino e l’emanazione della Legge Galvagno

Uno dei problemi emersi con l’entrata in vigore del codice Albertino era rappresentato dalla formulazione dell’art. 26, che sanciva una garanzia giurisdizionale a tutela della libertà individuale, prevedendo che «la libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive». A ben vedere, la disposizione mal si conciliava con le prescrizioni in materia di oziosi e vagabondi, in cui assumeva un ruolo fondamentale l’autorità amministrativa. 
L’allora ministro dell’Interno, l’Onorevole Galvagno, nella sessione del 1851 della Camera dei deputati del Parlamento subalpino, rivolgendosi ai suoi colleghi precisava che, a suo avviso, oziosi e vagabondi avrebbero dovuto essere considerati come una classe pericolosa, in permanente reato, in quanto non si poteva non dubitare che, essendo privi di mezzi, vivessero, continuamente, con i proventi dei reati. Aggiungendo inoltre che nei loro confronti fosse necessaria, ancora, una legislazione d’emergenza che portasse con sé disposizioni eccezionali[21].

In questo contesto, veniva approvata, nel 1852, la c.d. Legge Galvagno[22] che previde – sulla scia della distinzione carrariana tra diritto penale e magistero di polizia[23] – le misure dell’ammonizione, del domicilio coatto e del rimpatrio con foglio di via obbligatorio o per mezzo della forza pubblica, dirette specialmente a reprimere l’ozio ed il vagabondaggio, definiti, come detto, un reato permanente[24]. L’uso di tale terminologia rende palese come non fosse ancora ben tracciata e nitida alla vista del legislatore la linea di demarcazione tra fatti offensivi e fatti sintomatici di pericolosità, basati il più delle volte sul mero sospetto[25]
Tra le novità più importanti della legge in commento figurava l’istituzione del pretore mandamentale, che avrebbe dovuto dichiarare la condizione di ozioso e vagabondo così come previsto dalla legge del 1852. La scelta di competenza in questa direzione veniva spiegata direttamente dallo Statuto Albertino: era un’autorità giudiziaria, ma a ben vedere sui generis, perché non godeva delle garanzie proprie degli altri giudici e dipendeva, quindi, direttamente dal Ministro dell’Interno[26].
Si assistette quindi ad una commistione tra il profilo penale e il profilo di polizia che ritornò in evidenza nel 1859, quando la nuova legge di pubblica sicurezza[27] sostituì la legge Galvagno, introducendo, nel codice penale, al Capo XII (Degli oziosi e vagabondi), in particolare agli art. 82 e seguenti, il potere del giudice del mandamento di ordinare il divieto di soggiorno, che in epoca più recente verrà definito come domicilio coatto o confino di polizia. 

2.3.        La prima legge di pubblica sicurezza: la legge Pica

Nella trattazione dell’excursus storico-legislativo merita senz’altro attenzione la madre di tutte le leggi di emergenza[28]: la legge Pica[29], con cui il Governo ebbe la «facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, nonché ai camorristi e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re e di due Consiglieri Provinciali»[30].
La legge eccezionale fu estesa dal brigantaggio alla camorra, perché questa venne considerata come un potere parallelo[31] e alternativo rispetto alla sovranità dello Stato, sia sul terreno del monopolio della violenza e dell’ordine sociale, sia su quello dell’amministrazione di funzioni statali essenziali come la tutela dell’ordine pubblico e della convivenza civile o l’esazione dei tributi fiscali.
La legge si componeva di nove articoli ed era accompagnata da un corposo regolamento di esecuzione[32]
Sul versante penale, l’art. 1 della legge in commento assoggettava coloro che «andassero scorrendo le pubbliche vie e le campagne per commettere crimini o delitti» nelle province caratterizzate dal brigantaggio al codice penale militare e, di conseguenza, ai Tribunali militari, che li avrebbero potuti condannare a morte. Solo nell’ipotesi in cui non avessero opposto resistenza, concorrendovi circostanze attenuanti ulteriori, si sarebbe potuti passare dalla fucilazione ai lavori forzati a vita[33].
A ben vedere, la Legge Pica non è stata solo antesignana delle odierne misure di prevenzione, ma prefigurava, ante litteram, una forma di criminalizzazione del fenomeno associativo[34], attualmente contemplato dall’ art. 416-bis c.p.: il legislatore dell’epoca, oltre ad identificare, per i “manutengoli”[35], comportamenti che non indicavano una partecipazione al sodalizio criminoso, ma piuttosto un fiancheggiamento esterno[36], introduceva, per la prima volta in una norma giuridica, la qualifica soggettiva generica di “camorrista”. Questo aspetto è stato evidenziato da parte della storiografia mafiosa che ha sottolineato come, già centocinquantasette anni fa si introduceva un’ipotesi di “reato-genere”, quello appunto del camorrista, successivamente ripresa dal legislatore contemporaneo nella formulazione attuale dell’art. 416-bis c.p.[37].
Sempre sul versante penale, la legge Pica fece, per la prima volta, un uso «politico – criminale»[38], dei fenomeni di pentimento[39]. In tal senso, prescriveva, all’art. 3, che «sarà accordata a coloro che si sono già costituiti o si costituiranno volontariamente […] la diminuzione da uno a tre gradi di pena».

Anche l’area dei soggetti destinatari subiva una dilatazione: venne meno il riferimento ai soli oziosi e vagabondi, tipico della legislazione albertina, a favore di soggetti che in varia guisa erano raggiunti da indizi di reità.

2.4.        Il “braccio punitivo” di un “odioso” potere preventivo

Il neonato istituto del domicilio coatto era mantenuto anche nella legge di pubblica sicurezza del 1865[40], a riprova del fatto che non poteva considerarsi semplicemente legato al fenomeno emergenziale del brigantaggio. Ed è infatti dall’entrata in vigore di questo t.u.l.p.s. che si assiste – sul piano dell’utilizzazione politico criminale o, ancor meglio, politico tout court[41] – all’espansione delle misure di prevenzione e all’inasprirsi delle critiche verso l’istituto preventivo che, ancora oggi, caratterizzano i dibattiti dottrinali.
Il 1866 fu per l’Italia l’anno della terza guerra di indipendenza, che condusse all’annessione del Veneto, sancita con un plebiscito del 21 ottobre. La guerra suscitò violente polemiche contro il Governo e i comandi militari, tanto che ci si interrogò, più in generale, sulla struttura politica del Paese e, soprattutto, sul modo in cui erano stati affrontati i problemi dello sviluppo sociale; ne derivò, come nel caso della rivolta di Palermo del settembre 1866, un’accentuazione della linea autoritaria e repressiva del Governo, specialmente nei confronti del meridione. Il conflitto bellico e l’assunzione del debito pubblico del Veneto avevano ulteriormente peggiorato la situazione economica e finanziaria dello Stato, tanto che gli anni seguenti furono caratterizzati da un inasprimento della politica fiscale, orientata a far gravare sulle popolazioni rurali l’onere principale della trasformazione economica e sociale del paese. Nel 1868 venne, in questa direzione, votata la tassa sul macinato, che fu accolta da inutili e sanguinosi tentativi di resistenza da parte dei contadini, specialmente del Nord[42].
Il fenomeno si espanse a tal punto da meritare l’attenzione anche del Procuratore generale del Re a Napoli, che, nel 1875, in occasione del discorso inaugurativo del novello anno giudiziario, affermava che con le misure di prevenzione si era instaurato un «potere preventivo», definito «odioso»[43].
Le norme di polizia avevano effettivamente mutato i soggetti destinatari, tanto che il focus non era più solo su oziosi e vagabondi[44], ma ci si rivolgeva a nuove frange di devianza[45]: le modifiche introdotte dalla L. n. 294 del 6 luglio 1871 inasprirono le misure[46], attribuendo alla polizia sia la possibilità di perquisire le abitazioni di «camorristi napoletani e mafiosi siciliani nonché dei “malandrini”», sia il potere di sequestrare «denaro e oggetti non confacenti allo stato e condizioni dei perquisiti senza che ne giustifichino la legittima provenienza». In tal senso era da considerarsi irragionevole un sistema misto, che affidava al diritto penale il «braccio punitivo»[47] di una qualifica che veniva poi riservata all’amministrazione tramite la polizia. 

2.5.        La politica del trasformismo alla base dei progetti di codice penale

Nel 1877 si concluse in Italia il predominio governativo della Destra storica a vantaggio della nuova classe politica della Sinistra meridionale, che rappresentava ceti sociali più differenziati e articolati con forti legami con i rispettivi territori. Pervenuti alla guida dei Governi nazionale e locale, assunsero come linea direttrice una nuova politica, definita “della trasformazione dei partiti”, che riteneva superati i contrasti di fondo tra le due ali del movimento liberale. Ne risultò la piena legittimazione della pratica politica del trasformismo, intesa come costante ricerca di accordi tramite mediazione di interessi per lo più particolari. Il limite di questa impostazione fu quello di non facilitare il percorso e di rendere quasi sempre impossibile la realizzazione di progetti di riforma di ampio interesse generale[48].
In tal senso, andavano infatti tutti i numerosi progetti di codice penale – di seguito brevemente analizzati – presentati ma mai giunti a concludere il loro iter, proprio a causa della costante ricerca di accordi. 

2.5.1.     La Commissione Pisanelli

Così, la Commissione volta alla redazione del nuovo codice penale nominata dal Ministro De Falco[49] nel 1866, e presieduta da Pisanelli, dopo aver distinto i delitti e le contravvenzioni e compilato un separato codice di polizia punitiva per i fatti che «non essendo promossi con dolo, né mirando al danno altrui, si puniscono perché offendono la sicurezza, o sono occasione di reati, o, in altre parole, per iscopo di prevenzione più che di repressione», decise di  ricomprendere tra questi anche l’oziosità e il vagabondaggio, in quanto «fatti che si puniscono perché aprono l’occasione e fan sorgere il timore di reati, piuttosto che per l’indole loro propria»[50].
Anche la successiva Commissione, incaricata di rivedere il lavoro della prima, mantenne, sul punto, la stessa linea: «nessuno può affermare che un mendicante od un ozioso offenda un diritto altrui e lo offenda con animo deliberato e pravo»[51]. Secondo questo progetto, gli oziosi erano punibili in caso di contravvenzione all’ammonizione dell’autorità di pubblica sicurezza, al contrario dei vagabondi, per i quali non era previsto questo requisito in quanto ritenuti pericolosi di per sé[52]. In entrambi i casi, le pene consistevano nell’arresto[53] e nella sottoposizione alla sorveglianza della polizia.

2.5.2.     Il progetto Vigliani

Dalle posizioni del progetto del 1870 non si discostava quello presentato al Senato dal Ministro Vigliani[54] nel 1875, che nella sua relazione sostenne che oziosità e vagabondaggio, «non racchiudendo le condizioni caratteristiche del dolo e del danno, non potevano, a rigor di principio, ricevere qualificazione di delitti, e che, come azioni costituenti un pericolo sociale, dovevano entrare nel novero delle contravvenzioni»[55], anche se qui la parte dedicata alla “polizia punitiva”, diversamente dal progetto del 1870, che prevedeva una compilazione separata, costituiva parte integrante del codice penale stesso. 
In materia di vagabondaggio, le disposizioni del progetto, che erano sostanzialmente le stesse del 1870, vennero approvate dalla Commissione del Senato incaricata dell’esame, ma alcune furono poi in parte modificate in aula: come per l’oziosità, anche per il vagabondaggio, ad esempio, venne richiesta l’ammonizione. 

2.5.3.     Il progetto Mancini

Il progetto del 1875, a firma Vigliani, non venne trasmesso alla Camera a causa della crisi che, l’anno successivo, portò la Sinistra al Governo. Ciò nonostante, il Guardasigilli Mancini, decise di adottarlo comunque e, dopo averne affidata la revisione ad una Commissione di alto profilo intellettuale[56], lo sottopose all’esame delle assemblee legislative: noto come “progetto Mancini”, il testo, limitatamente al libro primo, fu approvato dalla Camera nel 1877. Non si arrivò invece a discutere del secondo libro[57] e, quindi, neanche della parte relativa alla “polizia punitiva”.
È doveroso sottolineare come la Commissione accolse la proposta della prima Sottocommissione Carrara – Nelli e del Commissario Lucchini di mantenere nel codice le sole disposizioni di interesse generale e di rimuovere quelle già previste in leggi speciali o in progetti di legge. Al contrario, la Sottocommissione Ellero – Tolomei, cui venne affidato il titolo specifico, non fece alcuna proposta di modifica rispetto al testo già approvato dal Senato[58].

2.5.4.     Il primo tentativo di Zanardelli

Nel 1883 fu il Ministro Zanardelli[59] ad incaricarsi di redigere un nuovo progetto integrale di codice penale, che fu presentato alla camera dal successore Savelli con alcune modificazioni. 
Venne accentuata l’impostazione seguita fino a quel momento: in materia di “polizia punitiva” il secondo libro del codice conteneva solamente «le norme sostanziali e comuni a qualsivoglia specie di contravvenzioni, lasciando alle leggi speciali il regolare le singole classi di contravvenzioni»; al progetto di codice venne allegata, assieme ad altre tre proposte – sulle armi, sulla tutela della pubblica morale e sulla tutela della sicurezza personale e della proprietà pubblica e privata –, anche una «per la repressione dell’oziosità, del vagabondaggio e dell’illecita mendicanza», in cui si prevedeva che il giudice potesse far scontare l’arresto in uno stabilimento pubblico di lavoro o nell’esecuzione di un’opera di pubblica utilità. Il progetto specificava che dovesse essere censurato «il metodo della legge di applicare agli oziosi e ai vagabondi la pena detentiva pura e semplice, la quale non solo riesce inutile, ma è altresì assurda e dannosa, perché costringe i contravventori a mantenersi forzatamente in quell’ozio, contro cui il legislatore deve appunto rivolgere la sua azione preventiva più che repressiva»[60].

3.   Agli arbori del ‘900

Nel 1889, dopo quasi venticinque anni dal progetto della Commissione Pisanelli, con il secondo tentativo di Zanardelli, l’obiettivo del codice unico venne finalmente raggiunto. Il risultato finale fu un codice che rifletteva, nella forma e nella sostanza, «le aspirazioni scientifiche della penalistica civile di orientamento liberale»[61], nel quale venne abbandonato ogni riferimento all’oziosità e al vagabondaggio. 
Il riferimento a queste categorie di soggetti fu escluso non solo dai delitti, ma anche dalle contravvenzioni, «a causa della difficoltà di definirne gli elementi con criteri positivi e per la convenienza di coordinare le esigenze dell’ambiente sociale con quelle stabilite per altri fatti congeneri», lasciandone la previsione alla legge di pubblica sicurezza od ad altra legge speciale, «con quelle norme che i tempi e le circostanze suggeriranno, e che potranno, occorrendo, essere più agevolmente suscettive di riforma»[62].

3.1.        La legge Crispi e la “spirale sanzionatoria”

È dello stesso anno la legge di pubblica sicurezza – 30 giugno 1889, n. 6144 – a firma Crispi[63] che si prefiggeva di sostituire l’allegato B della legge del 20 marzo 1865, n. 2258, sulla sicurezza pubblica.
Nel nuovo testo, si assiste ad una spirale sanzionatoria difficilmente eludibile[64]: pur se con qualche garanzia maggiore rispetto al passato, la sanzione, per oziosi e vagabondi, era ancora una volta l’ammonizione, che comportava – oltre ad alcune incapacità civili, amministrative, politiche e processuali – una serie di obblighi[65], la cui violazione, quasi inevitabile, poteva avere conseguenze anche gravi quali l’arresto sino ad un anno, la sottoposizione alla vigilanza speciale e l’invio al domicilio coatto[66].
Nel novembre dello stesso anno, venne emanato il regolamento di esecuzione[67], che si occupava di misure di prevenzione attraverso un meccanismo che prevedeva tre step fondamentali: l’ammonizione, cui seguiva la vigilanza speciale dell’Autorità di pubblica sicurezza e, infine, il domicilio coatto. 
La novità risiedeva nella circostanza che, tra i soggetti suscettibili di ammonizione, la legge non contemplava più solo gli oziosi e i vagabondi abituali validi al lavoro ma non provveduti di mezzi di sussistenza, ma, ai sensi dell’art. 94 del regio decreto n. 6144[68], si riferiva anche «ai diffamati per i delitti di cui agli articoli seguenti». La definizione di diffamato era data dall’art. 95, che lo identificava in «colui che è designato dalla pubblica voce come abitualmente colpevole, dei delitti di omicidio, di lesione personale, di minaccia, violenza o resistenza alla pubblica autorità e sia stato per tali titoli colpito da più sentenze di condanna, o sottoposto a giudizio ancorché sia questo finito con sentenza assolutoria per non provata reità, ovvero sia incorso in procedimenti nei quali sia stata pronunziata sentenza od ordinanza di non farsi luogo a procedimento penale per insufficienza di prove»[69].
La platea dei destinatari, quindi, si ampliava considerevolmente, perché agli oziosi e ai vagabondi si affiancarono anche i soggetti colpiti da sospetto.
Si determinò, in questo senso, un deciso cambiamento del sistema penale che rivolgeva il suo sguardo solo verso la pericolosità oggettiva delle condotte, ignorando, invece, il profilo della pericolosità soggettiva dei singoli, secondo una linea di tendenza volta a considerare sempre più i comportamenti che aggredivano i valori fondamentali della società civile – e non anche gli eventi rilevatori di pericolosità – o, peggio, il semplice sospetto[70]. Il codice Zanardelli venne così depurato[71] dai fatti meramente sintomatici previsti dal codice sardo e la prevenzione ante o praeter delictum venne demandata alle misure extra penali di prevenzione – o di polizia –, che vennero da quel momento applicate dalla autorità amministrativa di pubblica sicurezza «con un procedimento scarsamente garantista e all’esito di accertamenti sommari»[72].

3.1.1.     La Scuola positiva criminologica

Il diritto della prevenzione si affiancò al diritto penale, creando un binario parallelo e svolgendo, rispetto al secondo, una funzione complementare. Questo dato portò i maggiori esponenti della Scuola Classica a dichiararlo estraneo al diritto penale: le misure di polizia vennero lasciate all’arbitrio della pubblica amministrazione e sottratte, di conseguenza, all’evoluzione garantista, determinando la reazione del positivismo di stampo ferriano[73], che considerava quelle misure inutili quanto al loro scopo e pericolose per l’arbitrio ed il sopruso che legittimavano, non avvedendosi però che ad analoghi risultati portavano i c.d. sostitutivi penali[74].
Apparve ancor più chiaro, dunque, il ruolo delle misure di prevenzione in questo contesto: erano volte a sanzionare comportamenti che, di per sé, non potevano essere considerati lesivi – si veda ad esempio l’ozioso e il vagabondo – ma, piuttosto, disfunzionali, finanche a raggiungere soggetti che la giustizia non era riuscita a colpire, ma che tuttavia erano gravati da quest’aurea di sospetto[75], ancorché assolti. 

3.1.2.     Il procedimento 

Per quanto attiene alla problematica delle garanzie giurisdizionali, un primo nucleo si rinveniva nell’art. 97 del regio decreto n. 6144 del 1889, che prevedeva la competenza del Presidente del Tribunale nel verificare sommariamente, per mezzo di testimonianze o altre informazioni, le doglianze denunciate e nel provvedere alla comparizione innanzi a sé, non più tardi di cinque giorni, dell’imputato. In questa fase, veniva data facoltà di presentare prove a discarico, solo dopo aver enunciato l’imputazione con l’esposizione sommaria dei fatti sui quali si fondava. L’art. 99 dava anche la possibilità, dietro richiesta formale, di accordare all’imputato l’assistenza di un difensore.
Proseguendo nella disamina dell’articolato del regio decreto, si notava la possibilità per l’imputato di ammettere i fatti esposti nella denuncia o di «negarli senza addurre testimonianze od altre giustificazioni»[76]: in entrambi i casi, il Presidente pronunciava un’ordinanza. Nell’eventualità, invece, in cui l’imputato avesse deciso, tramite il difensore, di impugnare la denunzia e presentare le prove a difesa, il Presidente, assunte le testimonianze ed esaminati i documenti esibiti, avrebbe dovuto invitarlo a comparire nuovamente innanzi a lui entro un termine non maggiore di dieci giorni da quello della prima comparizione e, uditolo, pronunciare un’ordinanza[77]che avrebbe dovuto, in ogni caso, essere comunicata all’autorità di pubblica sicurezza «entro ventiquattro ore»[78].
Gli articoli seguenti tracciavano una distinzione soggettiva tra ozioso e vagabondo, sottoposti allo stesso regime normativo, e il diffamato, cioè colui che fosse stato colpito dalla fama negativa di essere abitualmente dedito alla commissione di quella serie di reati indicati dagli artt. 95 e 96 del R.d. n. 6144 del 1889. L’art. 103 aveva cura di precisare che, nel caso in cui si trattasse di oziosi o vagabondi, il Presidente, nell’ordinanza di ammonizione, avrebbe dovuto prescrivere di «darsi al lavoro, di fissare stabilmente la propria dimora, di farla conoscere all’autorità locale e di non abbandonarla senza preventivo avviso all’autorità medesima». L’articolo seguente prescriveva, per il diffamato, «di vivere onestamente, di rispettare le persone e le proprietà, di non dar ragione a sospetti e di non abbandonare il luogo di sua dimora senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza». A tal proposito, si è osservato che l’art. 104 fosse da considerarsi una prescrizione, già allora, difficilmente esigibile: sembrava definire il diffamato come soggetto del sospetto, mentre nella realtà era certamente da considerarsi oggetto dello stesso[79]
Successivamente, l’articolato chiariva che il contravventore delle prescrizioni dell’ordinanza di ammonizione avrebbe dovuto essere punito con l’arresto e con la vigilanza speciale dell’autorità di pubblica sicurezza. Ecco che l’ammonizione si veniva a configurare come una sorta di meccanismo di criminalizzazione in termini contravvenzionali.

3.1.3.     Il domicilio coatto del 1889

Come visto, l’ultimo step del procedimento di prevenzione era rappresentato dal domicilio coatto, vera novità delle leggi di pubblica sicurezza del 1889. La disciplina, contenuta nel Capo V, esordiva individuando i soggetti che avrebbero potuto essere sottoposti all’istituto in questione: «possono assegnarsi (…), qualora siano pericolosi alla sicurezza pubblica, gli ammoniti e i condannati alla vigilanza speciale della pubblica sicurezza che incorrano con distinte sentenze in due condanne in contravvenzione all’ammonizione o alla vigilanza speciale (1), a due condanne per delitto contro le persone e le proprietà (2), in due condanne per violenza o resistenza all’autorità (3), in una condanna per contravvenzione all’ammonizione o alla vigilanza speciale ed in una per delitto delle specie indicati ai n. 2 e 3 (4)»[80].Si nota, per la prima volta, la comparsa specifica della nozione di “pericolosità per la sicurezza pubblica” – che oggi è uno dei cardini delle misure di sicurezza –, ma soprattutto l’applicabilità del confino in funzione del sopravvenire di vere e proprie condanne. In tal senso, è da considerarsi sicuramente una misura di sicurezza, a riprova del fatto che la linea di demarcazione tra i due tipi di provvedimento sia, sin dall’origine, mobile. 

3.1.4.     La figura del dissenziente politico e le leggi contro il terrorismo anarchico

A partire dal 1889, si assistette ad uno sviluppo della legislazione preventiva, accompagnato da un’espansione delle figure soggettive. Sottotraccia è sempre presente la figura del dissenziente politico, che – pur non potendo incorrere in responsabilità penale – era comunque considerato pericoloso dagli ordinamenti costituiti[81]
La figura del dissenziente politico trovò ampio spazio, negli anni seguenti, con la legislazione anti – anarchica inaugurata a partire dal 1894, quando furono emanate, per la repressione di questo “particolare” terrorismo, tre leggi[82]: la 314, la 315 e la 316.
Erano gli anni della dura repressione delle agitazioni dei Fasci siciliani attuata dal governo Crispi, seguita dai Moti di Lunigiana. Nei primi mesi dell’estate 1894, l’anarchico Paolo Lega aveva posto in atto, a Roma, un attentato, poi fallito, contro lo stesso Crispi e alla fine del mese di giugno, l’anarchico Sante Caserio, aveva ucciso, a Lione, il Presidente francese Sadi Carnot[83]. L’insieme di questi eventi aveva destato viva preoccupazione tra i governanti. 
L’1 luglio 1894 Francesco Crispi presentava alla Camera tre progetti di legge formalmente finalizzati al mantenimento dell’ordine pubblico, ma in sostanza rivolti a perseguire penalmente gli anarchici.
La prima legge[84] riguardava i reati commessi con materie esplodenti: si intensificavano le pene per tali reati[85], ma soprattutto si tendeva a colpire l’incitamento e l’apologia. La seconda legge[86] rincarava le pene per i reati di istigazione a delinquere, apologia di reato ed eccitamento all’odio di classe se commessi a mezzo stampa. Veniva inoltre introdotta una nuova pena per l’istigazione dei militari alla disobbedienza. 
La terza legge[87] inaspriva le disposizioni relative al domicilio coatto. In particolare, l’art. 1 consentiva di applicare tale misurea per un periodo da uno a cinque anni nei confronti di persone sospette secondo la legge di pubblica sicurezza e quelle condannate per reati posti in essere con l’impiego di materie esplodenti. L’art. 3, inoltre, prevedeva la facoltà in capo alla Commissione provinciale di proporre il domicilio coatto nei confronti di coloro che avessero «manifestato il deliberato proposito di commettere vie di fatto[88] contro gli ordinamenti statali»: gli atti preparatori diventarono, per la prima volta, presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione. L’idea preponderante era quella di combattere i sovversivi «nel campo delle idee, per non aver poi a reprimerli nel campo dei fatti»[89].
L’articolo seguente contemplava, invece, la possibilità di ordinare, con deliberazione motivata, l’arresto preventivo della persona nei confronti della quale era stata richiesta l’assegnazione al domicilio coatto[90]. La legge, in chiusura, vietava le adunanze e le associazioni che avessero avuto come scopo il «sovvertimento per le vie di fatto degli ordinamenti sociali e comminava il domicilio coatto fino a sei mesi ai contravventori»[91].

4.   La crisi del sistema

L’aumento macroscopico, avvenuto tra il 1894 e il 1895, del novero di soggetti suscettibili di essere sottoposti a domicilio coatto contribuì ad aggravare la crisi del sistema. Le proteste e le violenze, soprattutto nelle isole, mostrarono le terribili condizioni di vita cui versavano i destinatari della misura. Dall’esame dei dati statistici raccolti da una Commissione di studio istituita nell’ottobre 1895, emerse un quadro molto critico: il domicilio obbligatorio era di fatto diventato una misura – pena con un’elevata quota di recidivi. La Commissione, presieduta da Tancredi Canonico, avanzò una serie di proposte di riforma[92], che vennero, negli anni seguenti, riprese in vari modi da tutti i progetti successivi: Pelloux nel 1899, Giolitti – Ronchetti nel 1904 e Luzzatti – Fani nel 1910[93].

4.1.        Il codice Rocco

Nel 1925, il Ministro Rocco presentò un disegno di legge per la delega al Governo della «facoltà di modificare» la legislazione in materia penale. Le ragioni della riforma furono illustrate nella Relazione[94] di accompagnamento allo stesso disegno di legge: di fronte all’aumento della criminalità negli anni del dopoguerra, la legislazione penale si era rivelata densa di difetti e lacune. L’esperienza aveva messo in luce quanto fossero insufficienti «i mezzi puramente repressivi e penali e l’assoluta inidoneità delle pene a combattere i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, di quella minorile, degli infermi di mente pericolosi». Fu quindi necessario ripensare il sistema, ritenendo di predisporre, accanto alle tradizionali misure di repressione, dei «nuovi e più adeguati mezzi di prevenzione della criminalità». La strategia del nuovo codice consistette, da un lato, nell’inasprimento delle sanzioni contro la delinquenza in nome della difesa dello Stato e degli interessi individuali e collettivi ritenuti meritevoli di tutela; dall’altro, nell’introduzione di nuovi istituti considerati più moderni ed adeguati alla prevenzione del delitto, come le misure di sicurezza[95].

4.2.        Lo “scolorimento dei confini” tra pericolosità sociale e politica in epoca fascista

Durante il periodo fascista, le misure di prevenzione acquisirono una posizione di primo piano «in virtù della necessità, tipica di ogni regime non fondato sul consenso, di attrezzarsi con strumenti di incapacitazione degli avversari politici, e più in generale di ogni forma di dissenso sociale»[96]. Furono dunque piegate alle esigenze del regime e utilizzate come strumenti di controllo politico: la pericolosità sociale arrivò a coincidere con la quella politica e le misure divennero strumenti di repressione del dissenso. Tutto questo in linea con l’impostazione autoritaria dello Stato, alla luce della quale difesa sociale e difesa dell’ordine politico tendevano a sovrapporsi perfettamente. Venne ampliato l’utilizzo delle misure preventive al fine di tutelare il rovesciato rapporto tra Stato ed individuo, ciò soprattutto mediante lo «scolorimento dei confini posti tra pericolosità sociale e politica»[97]

4.3.        L’amministrativizzazione delle misure preventive

I Testi Unici di pubblica sicurezza nn. 1848 del 1926 e 773 del 1931 si distinsero dai provvedimenti di epoca liberale sotto un duplice punto di vista, che costituiva il quid novum del sistema preventivo di epoca fascista. Sotto il primo profilo l’avvento del regime determinò una «istituzionalizzazione dell’uso politico delle misure»[98] che, da essere impiegate in modo eccezionale e transitorio, vennero ad essere, durante il ventennio, utilizzate in modo stabile ed ordinario[99]. Quanto alla seconda caratteristica, si assistette ad una «amministrativizzazione» del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, con conseguente riduzione di alcuni «margini di legalità, giurisdizionalità e garanzia»[100].
L’iter procedurale rimase inalterato rispetto a quello precedentemente previsto, ma si registrò un mutamento dell’organo idoneo a pronunciarsi, con conseguente sottrazione della decisione al sindacato dell’autorità giudiziaria[101]: la competenza ad applicare l’ammonizione non spettava più al Presidente del Tribunale, ma ad una Commissione provinciale composta da membri facenti capo al potere esecutivo[102]
L’ammonizione divenne applicabile agli oziosi, ai vagabondi abituali validi al lavoro non provveduti di mezzi di sussistenza o sospetti di vivere col ricavato di azioni delittuose; alle persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato; ai diffamati, cioè a coloro indicati come abitualmente colpevoli di alcuni delitti quando per tali reati fossero stati sottoposti a procedimento penale terminato con sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove[103].

4.4.        Il confino di polizia

Il regime si dotò, poi, di un nuovo strumento: il confino di polizia. Sebbene potesse essere considerato una «trasformazione della ben più nota misura»[104] del domicilio coatto, se ne differenziava in quanto poteva essere applicato anche senza la previa inflizione dell’ammonizione[105]
Il tratto caratterizzante del nuovo istituto consisteva nel fatto che ad esso potevano essere assoggettati, qualora ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, oltre che gli ammoniti e le persone diffamate, anche coloro che svolgevano o avessero manifestato il proposito di «svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamento politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, o un’attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionali»[106].
Il secondo tratto peculiare[107] del confino di polizia, come precedentemente rilevato, era rappresentato dall’amministrativizzazione del procedimento applicativo: venne meno la competenza dell’autorità giudiziaria per l’irrogazione dell’ammonizione e, al suo posto, venne prevista una Commissione provinciale[108].
D’altronde, la stessa rubrica del Titolo VIII del Libro I del codice del 1930, «Delle misure amministrative di sicurezza», non aveva un significato meramente formale, ma era il sintomo di una visione secondo la quale l’amministrazione poteva legittimamente e discrezionalmente valutare quali interventi compiere ai fini della prevenzione della criminalità, andando ad intaccare in maniera anche molto incisiva la sfera di libertà dei soggetti, al di fuori di qualsiasi controllo. 
Alla qualificazione amministrativa di tali misure si opposero i c.d. “giurisdizionalisti”, i quali sostennero l’importanza del reato quale presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza e l’inesistenza di un diritto statuale alla loro applicazione ed esecuzione[109]. Per i sostenitori della natura amministrativa delle misure di sicurezza, invece, il reato altro non era che un elemento, fra gli altri, per la verifica della pericolosità sociale del soggetto[110]
Quanto alla procedura, questa non era compiutamente disciplinata né dalle leggi di pubblica sicurezza del 1926 e dal T.U. del 1931, né dai relativi regolamenti di esecuzione. Questi si limitavano a stabilire che: il prevenuto doveva essere invitato a comparire al fine di presentare le proprie difese; l’atto di citazione doveva contenere la succinta esposizione dei fatti sui quali la denuncia era fondata; in caso di mancata comparizione, il soggetto poteva essere accompagnato a mezzo della forza pubblica, salvo che la Commissione ritenesse l’interrogatorio non necessario; in ogni caso l’interrogatorio poteva essere sostituito dalla contestazione scritta degli addebiti con invito a presentare le discolpe per iscritto entro un congruo termine; l’eventuale impugnazione del provvedimento di assegnazione del confino non determinava la sospensione della sua esecuzione[111].

5.   L’epoca repubblicana

La fine del regime fascista e l’entrata in vigore della Costituzione segnarono un punto di svolta per il sistema preventivo: esso, non più svincolato da una cornice sovraordinata di principi di riferimento, doveva ora fare i conti con l’affermarsi dei diritti e delle libertà costituzionali su cui le misure di prevenzione andavano ad incidere[112].
Da questo punto di vista il 1956 rappresentò un anno cruciale, poiché Consulta[113] operò una prima «correzione delle più gravi storture»[114] della legislazione preventiva ereditata dal fascismo, sancendo alcuni principi che costituirono la base di partenza per la riforma delle misure di prevenzione in chiave costituzionalmente orientata. Alla luce dei principi enunciati dalla Corte, il legislatore decise di «ripulire»[115], con la legge n. 1423 del 1956, il sistema della prevenzione, così da renderlo compatibile con il nuovo quadro dei diritti fondamentali.

5.1.        L’intenzionale silenzio dell’Assemblea Costituente

Il varo della Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, poteva essere l’occasione per espungere definitivamente dal sistema questa materia ibrida, ma la storia ha agito in modo diverso[116].

Nella nostra Costituzione non vi è alcun cenno espresso alle misure in questione. In sede costituente fu avanzato un solo emendamento all’articolo 13 volto a ricomprendere tali misure, ma che non venne recepito dal testo definitivo. Si allude all’emendamento dell’Onorevole Bulloni, secondo cui «misure di polizia restrittive della libertà personale a carico di persone socialmente pericolose possono essere disposte solo per legge e sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria. In nessun caso la legge può consentire tali misure per motivi politici». Il silenzio serbato è stato, da più parti, ritenuto significativo dell’implicita esclusione delle misure di prevenzione dall’ordinamento costituzionale[117].

5.2.        Le prime decisioni della Corte Costituzionale

L’entrata in vigore della Costituzione pose in primo piano il problema della legittimità sia delle misure di prevenzione in quanto tali, regolate come attività di polizia, sia di specifiche norme del t.u.l.p.s. del 1931, dal quale emergeva chiaramente l’impronta autoritaria del regime fascista. 
L’entrata in vigore della Costituzione aveva imposto un cambio di rotta, che ebbe luogo con l’inizio dell’attività della Corte stessa.
Le prime declaratorie di illegittimità ebbero ad oggetto proprio alcune disposizioni del t.u.l.p.s., nelle quali affiorava il tratto liberticida delle misure di pubblica sicurezza, applicabili all’esito di procedure controllate dall’autorità amministrativa: meritano di essere segnalate la decisione concernente il rimpatrio obbligatorio previsto dall’articolo 157 del testo unico citato e quella riguardante la misura dell’ammonimento, regolato dagli articoli 164 e seguenti del t.u.l.p.s.[118].  

5.2.1.     La sentenza n. 2 del 1956

Nella prima delle due pronunce citate, la Corte[119] ritenne che le disposizioni relative ai provvedimenti del rimpatrio con foglio di via obbligatorio e della conseguente diffida non contrastassero, in linea generale, con l’art. 13 Cost., tanto che, tutt’oggi, non è riconosciuta un’illimitata libertà di condotta del cittadino. «Ciò che però contrasta, con l’articolo 13» – continuava la Corte – «è anzitutto il potere di ordinare la traduzione del rimpatriando, perché ciò viola quella libertà personale che è garantita da tale articolo»: in tal senso, la traduzione restava legittima nei casi previsti dall’ultimo comma dell’articolo 157 e dall’analogo terzo comma dell’articolo 163 della stessa legge[120], in quanto in questi casi la traduzione era per legge conseguente ad una decisione dell’Autorità giudiziaria. La Corte ebbe poi cura di precisare che il procedimento del rimpatrio obbligatorio, per essere legittimo, avrebbe dovuto essere giustificato da fatti concreti, che potessero rientrare nelle limitazioni indicate dall’art. 16 Cost.: «il sospetto, anche se fondato, non basta, perché, muovendo da elementi di giudizio vaghi e incerti, lascerebbe aperto l’adito ad arbitrii, e con ciò si trascenderebbe quella sfera di discrezionalità che pur si deve riconoscere come necessaria all’attività amministrativa, perché le leggi e la Costituzione non possono prevedere e disciplinare tutte le mutevoli situazioni di fatto né graduare in astratto e in anticipo le limitazioni poste all’esercizio dei diritti».
La sentenza in commento gettò le basi di alcuni dei principi che ancora oggi costituiscono la base dei presupposti di applicabilità delle misure di prevenzione[121]: la necessità che i provvedimenti siano fondati su fatti specifici, l’obbligo di motivazione[122], il divieto di discriminazione[123] e la piena operatività del diritto di difesa[124].

5.2.2.     La sentenza n. 11 del 1956

Nella sentenza del 3 luglio 1956, n. 11 – che ebbe il merito di avviare il crollo, seguito purtroppo da una riedificazione piuttosto simile all’edificio precedente, del sistema normativo ereditato dal testo unico del 1933[125] – la Corte bocciava in blocco la misura dell’ammonizione in ragione dell’inosservanza della riserva di giurisdizione sancita dall’art. 13 Cost. Alla Consulta, chiamata ad esprimersi sull’istituto dell’ammonizione, fu chiesto se lo stesso fosse o meno «compatibile con le disposizioni costituzionali sulla libertà personale del cittadino» e se, ove tale incompatibilità fosse stata rilevata, l’art. 13 Cost. si sarebbe potuto ripercuotere «direttamente e immediatamente in senso invalidante sugli articoli sopra citati»[126]. Dall’articolato costituzionale risultava – e risulta tutt’oggi – che il diritto di libertà personale non si potesse presentare come un illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensì come diritto a che l’opposto potere di coazione personale, di titolarità statale, non potesse essere esercitato se non in determinate circostanze e nel rispetto di talune forme. In proposito, la Corte stessa rilevava che «nessun dubbio può sussistere sulla portata sensibilmente limitatrice della libertà personale delle norme sull’ammonizione contenute nell’attuale t.u.l.p.s.» e che l’ammonizione si potesse risolvere in una «degradazione giuridica di cui taluni individui vengano a trovarsi per effetto di una pronuncia della pubblica autorità»[127]: per questi motivi il Giudice delle leggi, nella citata sentenza, ritenne che la disciplina dell’ammonizione contrastasse con il precetto costituzionale che sottraeva alle autorità amministrative il potere di emanare provvedimenti restrittivi della libertà personale. Peraltro, dichiarava costituzionalmente illegittime le disposizioni contenute negli articoli da 164 a 176 del t.u.l.p.s. 
Lo spirito[128] di entrambe le sentenze era, quindi, quello di assicurare il rispetto della riserva di giurisdizione ai fini della limitazione della libertà personale.

5.3.        Un vuoto da colmare: la L. n. 1423 del 1956

Le sentenze della Corte Costituzionale avevano lasciato un vuoto legislativo[129], prontamente colmato dalla legge n.1423 del 1956[130], che tuttavia non prese in adeguata considerazione i rilievi avanzati da autorevole dottrina, secondo cui non si poteva non riconoscere che le misure di prevenzione, consistendo in limitazioni variamente condizionate della libertà individuale, avessero un carattere tipicamente penale, in quanto andavano a tutelare gli stessi beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici attraverso l’adozione di mezzi di coercizione individuale, e attuavano, quindi, una prevenzione penale in senso stretto[131]. Se ne traeva la conseguenza che esse dovessero venire comminate ed applicate nel pieno e «rigoroso rispetto» dei limiti segnati dagli artt. 13 e 27 della Costituzione, cioè «nell’ambito del principio di giurisdizionalità e del canone di legalità»[132]
Pur discostandosi dal previgente modello, la normativa del 1956 consentiva un timido intervento dell’autorità giudiziaria nella irrogazione delle misure di prevenzione, ma descriveva, inoltre, una «deludente diversa tipologia di soggetti che potevano essere colpiti da siffatte misure»[133], con una «recisa esclusione di valutabilità di comportamenti di devianza politica rispetto al potere costituito»[134]
Dal punto di vista sistematico, la legge n. 1423 del 1956 poteva essere divisa in due gruppi di norme: articoli da 1 a 6, che regolavano l’applicazione delle misure; articoli da 7 a 13 che ne regolavano l’esecuzione. 

5.3.1.     Le categorie criminogene

Ai fini della presente trattazione, assume rilevanza l’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, che prevedeva, almeno inizialmente, «cinque categorie di soggetti ritenuti potenzialmente inclini a delinquere»[135]. L’appartenenza ad una di tali tipologie costituiva l’ambito soggettivo per l’applicazione – in presenza di determinate condizioni – sia della preliminare diffida, sia delle misure di prevenzione.
L’articolato[136] disponeva che potessero essere diffidati dal questore:

  1. gli oziosi e i vagabondi abituali, validi al lavoro;
  2. coloro che sono abitualmente e notoriamente dediti a traffici illeciti;
  3. coloro che, per la condotta e il tenore di vita, debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento o che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere[137];
  4. coloro che, per il loro comportamento siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ovvero ad esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolare dolosamente l’uso;
  5. coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume.

Parte della dottrina ha avuto cura di sottolineare che tutte le notazioni qualificanti, che si sforzavano di descrivere figure soggettive, richiamavano nella realtà una condizione di vita. Il risultato di questo schema legislativo era che chiunque uscisse dall’iter istituzionale – lavoro regolare, vita di famiglia – avrebbe potuto rientrare in una di queste categorie[138].

5.3.2.     Il procedimento di applicazione

Quanto alle misure, il meccanismo previsto replicava quello precedentemente vigente: l’art. 2 della L. n. 1423 del 1956, prescriveva che, quando le persone indicate fossero considerate pericolose per la sicurezza pubblica e per la pubblica moralità e si trovassero al di fuori dei luoghi di residenza, il questore avrebbe avuto il potere di farvele ricondurre con foglio di via obbligatorio e, comunque, di invitarle a cambiare vita. Qualora non lo avessero fatto, l’art. 3 prevedeva l’applicazione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, cui poteva essere aggiunta, «ove le circostanze del caso lo richiedano»[139], il divieto di soggiorno o, nei casi di particolare pericolosità, l’obbligo di soggiorno in un determinato Comune. 
La novità della legge era contenuta nell’articolo 4 che prescriveva, per l’applicazione dei provvedimenti di prevenzione, che il Questore avesse solo la facoltà di proposta al Presidente del Tribunale. Questi avrebbe successivamente convocato «entro 30 giorni dalla proposta»[140] la camera di consiglio e provveduto ad una serie di accertamenti «piuttosto labili»[141]. Il testo originario del 1956 rimandava alle disposizioni degli artt. 636 e 637 del c.p.p. del 1930, cioè alle norme sui provvedimenti in camera di consiglio in sede di incidente di esecuzione. «L’interessato» – proseguiva l’articolato – «può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato o procuratore»[142].
Il tutto era formulato come un accertamento privo di qualsivoglia garanzia, in quanto il malcapitato si trovava nelle mani della polizia che, a tal proposito, raccoglieva quel che era successivamente destinato a fungere da base della decisione. Il successivo intervento giurisdizionale costituiva «uno spolverino dell’attività di polizia, che in precedenza veniva autonomamente gestito»[143]. Nella pratica il giudice non avrebbe potuto svolgere la funzione garantistica, in quanto l’attività che si trovava a compiere non era suscettibile di essere verificata in base a parametri effettivi, ma limitata alle sole valutazioni del corpo di polizia. 

6.   Il fenomeno mafioso

«Nell’immediato dopoguerra e fino a tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni ‘60 gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembravano fare a gara per minimizzare il fenomeno mafioso»[144]: tema su cui si soffermarono a più riprese i Procuratori Generali di Palermo in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario. Nel discorso del 1954 – il primo del dopo guerra – si insistette sul concetto che la mafia «più che un’associazione tenebrosa» costituisse «un diffuso potere occulto», non mancando di fare cenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti di «qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l’attività criminosa»: il riferimento era chiaro, e riguardava il Procuratore Generale di Palermo, Dott. Pili – espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte d’Assiste di Viterbo nel maggio 1952[145] –, in quanto in rapporti con Salvatore Giuliano. Nelle relazioni inaugurali degli anni successivi, gli accenni alla mafia – in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema – furono fugaci: nella relazione del 1956, si leggeva che «il fenomeno della delinquenza associata è scomparso», mentre in quella dell’anno seguente, si accennava appena ai delitti di sangue, da ascrivere, si dice, «ad opposti gruppi di delinquenti»[146]. A dieci anni di distanza, nelle relazioni del 1967 e 1968, si evidenziava la lenta ma costante eliminazione del fenomeno mafioso, raccomandando l’adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che «il mafioso, fuori dal proprio ambiente, diventa pressochè innocuo»[147].
Questi brevi richiami danno la misura di come il problema mafioso fosse stato sottovalutato da parte degli organismi responsabili, portando con sé una serie di omissis «sui nomi di decine di uomini politici che forse, di fronte alla mafia e ai suoi traffici, avevano chiuso almeno un occhio»[148].

6.1.        Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere, e l’ingresso della pericolosità qualificata

Una radicale innovazione si realizzò con la legge n. 575 del 1965[149], che fece venir meno il ruolo di centralità assegnato alle disposizioni del 1956[150], permettendo l’applicazione delle misure di prevenzione anche alle persone indiziate di appartenere ad associazioni mafiose ed ampliando i poteri di intervento della Magistratura. 
La legge fu definita «inizialmente molto timida»[151] in quanto, l’articolo iniziale, enunciando la sfera dei soggetti cui risultava riferibile, si esprimeva in tal senso: «La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose»[152]. Le finalità preventive vennero estese, dunque, dalle tradizionali categorie del disagio sociale o della condotta derivante da traffici o profili delittuosi, a categorie di soggetti che si caratterizzavano per il grado di attribuibilità della partecipazione a un’associazione criminale, seppur all’epoca non ancora tipizzata e riconducibile al reato di associazione per delinquere prevista dall’art. 416 c.p. (c.d. pericolosità qualificata)[153]. Ecco che venne alla luce ciò che in seguito sarà autorevolmente definito come il «fenomeno della gerarchia degli indizi»[154], consistente nel fatto che l’indizio sufficiente per applicare una misura di prevenzione avrebbe dovuto essere di grado inferiore rispetto a quello necessario ad aprire un procedimento penale; tuttavia, in tal modo si prospettava nuovamente il problema della c.d. “pena del sospetto”[155], che sarà comunque una caratteristica costante delle misure di prevenzione, sia di carattere personale, sia patrimoniale.
Una delle novità, delle quali all’epoca non vi fu consapevolezza, riguardò l’attribuzione anche al Procuratore della Repubblica – oltre che al Questore e pur in assenza di diffida – della facoltà di proporre le più gravi misure di prevenzione personale[156]: i motivi che spinsero il legislatore a includere il magistrato requirente tra i soggetti legittimati a instaurare il procedimento di prevenzione, erano verosimilmente legati alla constatazione che numerose istruttorie penali, pur sfociate in sentenze assolutorie, avessero lasciato sopravvivere significativi «indizi di appartenenza a associazioni mafiose»[157].

6.1.1.     L’inasprimento della pena

Con la legge del 1965 fu instaurata per la prima volta una correlazione tra il sistema delle misure di prevenzione e il diritto penale: l’art. 7 della legge n. 575 del 1965 prevedeva degli inasprimenti di pena legati al fatto che il reato fosse commesso da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione[158]. Tradizionalmente, il diritto penale era sempre intervenuto – tramite l’istituto della sorveglianza speciale – a sanzionare le trasgressioni agli obblighi stabiliti in modo da garantire l’effettività delle misure di prevenzione; da questo momento, invece, il diritto penale inizia a mutare le qualificazioni espresse in sede di prevenzione per farne oggetto di un inasprimento di pena: «l’essere stato qualificato mafioso in sede di prevenzione e l’aver subito la misura della sorveglianza speciale determinava conseguenze negative sul piano penale»[159].
La novella legislativa appena ricordata pone le basi per la distinzione tra misure rivelatrici di pericolosità comune, previste dalla legge n. 1423 del 1956, e di pericolosità qualificata, disciplinate dalla legge n. 575 del 1965.  Le differenze tra le due tipologie di provvedimento riguardavano i presupposti, l’organo competente e le conseguenze derivanti dall’irrogazione della misura di prevenzione[160]. In entrambi i casi si trattava pur sempre di misure personali: non esistevano ancora, a quel tempo, misure di carattere patrimoniale, che non erano contemplate nemmeno dalla legge speciale antimafia[161].
Successivamente, intervenne la legge 22 novembre 1967, n. 1176, che estese l’applicabilità della normativa del 1956 agli indiziati di «gestire abitualmente bische clandestine o di esercitare abitualmente scommesse abusive delle corse»[162], ampliando ancor di più la platea dei soggetti potenzialmente criminogeni[163].

6.2.        La Legge Reale e l’incapacitazione patrimoniale

Un brusco revirement ed un inatteso ritorno al passato[164] furono segnati, invece, dal varo della c.d. Legge Reale – L. 22 maggio 1975 n. 152[165] – che, in conseguenza della situazione emergenziale determinatasi nel paese, accrebbe il novero delle fattispecie dettate nel 1965, facendovi confluire anche la materia della eversione politica. In particolare, fu prevista, per la prima volta[166], una misura di carattere patrimoniale come «la sospensione provvisoria dell’amministrazione dei beni personali»[167], considerata da parte della dottrina come un’incapacitazione patrimoniale, che aveva sullo sfondo l’identificazione di una sorta di istrumentum sceleris[168].
Nell’Italia delle violente contestazioni politiche e studentesche[169], l’art. 19 della “Legge Reale” estese l’ambito di applicazione della disciplina agli individui portatori delle nuove tipologie di pericolosità, indicati dall’articolo 18[170], e ad alcune categorie soggettive già rientranti nella legge fondamentale del 1956. Si ribadì il ruolo attivo della Magistratura requirente, prevedendo che il Procuratore della Repubblica potesse compiere, sia direttamente sia a mezzo della polizia giudiziaria, tutte le indagini necessarie «ai fini dell’attuazione dei precedenti articoli 18 e 19 con l’osservanza delle norme stabilite per l’istruzione sommaria»[171].
Risulta evidente l’individuazione, ad opera della Legge del 1975, di una nuova fattispecie soggettiva di pericolosità sociale, rappresentata dai soggetti rientranti nelle maglie della criminalità politico – eversiva. Fu in questo contesto che il legislatore raggiunge la consapevolezza che, al fine di un’efficace lotta al crimine organizzato, sarebbe stato cruciale  operare su due diversi fronti: era necessario delineare una dettagliata definizione di associazione mafiosa e predisporre strumenti idonei all’individuazione e all’aggressione dei patrimoni mafiosi[172].

6.3.        La Legge Rognoni – La Torre e la consapevolezza dei flussi patrimoniali

Con la nota Legge Rognoni – La Torre del 1982[173] furono introdotte le prime vere misure di carattere patrimoniale che, a differenza delle misure di tipo personale – la cui utilità e legittimità erano state messe fortemente in discussione –, avevano trovato, almeno inizialmente, il favore dell’opinione pubblica[174], non solo perché il bene da sacrificare era sicuramente di rango inferiore rispetto alla libertà personale, ma anche in quanto, a livello di politica criminale, questa legge costituiva una novità in chiave sanzionatoria. Ci si era infatti resi conto che con la criminalità organizzata di tipo mafioso non era importante solo la pena detentiva, ma soprattutto recidere il flusso di patrimoni illeciti, contribuendo così ad indebolire l’associazione criminale.
Gli omicidi dell’On. Pio La Torre, promotore del contrasto patrimoniale alle mafie e della tipizzazione del delitto di associazione mafiosa, e del Gen. Alberto Dalla Chiesta, Prefetto di Palermo, imposero l’adozione di nuovi strumenti normativi[175]. Vennero introdotti il sequestro e la confisca dei patrimoni d’illecita provenienza – desunta anche dalla mera sproporzione tra valore dei beni e redditi dichiarati[176] – nella disponibilità diretta o indiretta (perciò formalmente intestati a terzi) delle persone indiziate (e non condannate) di appartenenza ad associazione di tipo mafioso; si tratta dei soggetti cui la L. n. 575 del 1965 aveva esteso l’applicabilità delle misure di prevenzione personali previste originariamente dalla L. n. 1423 del 1956 nei confronti di «persone dedite a traffici delittuosi o che vivono con il profitto dei delitti». 
Si assistette all’ingresso di una nuova forma di confisca di prevenzione – che sarebbe andata a costituire la premessa di quella per equivalente transitata nel diritto penale comune[177] – la cui peculiarità era rappresentata dalla mancata previsione, tra i presupposti di applicazione del provvedimento, del procedimento penale e della condanna, richiedendo soltanto, l’accertamento, da parte di un Tribunale specializzato, del mero indizio di appartenenza all’associazione di tipo mafioso, cui seguiva la confisca dei beni illecitamente accumulati (anche se intestati a prestanome), la cui provenienza illecita era desunta  anche attraverso alcune semplificazioni probatorie[178]

6.3.1.     Le novità della Legge Rognoni – La Torre

La Legge Rognoni – La Torre estese anche la categoria dei soggetti passibili di misure preventive, includendovi tutti i sospettati di perseguire finalità o agire con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso[179]. Un’importante novità risiedeva nell’attribuzione al magistrato requirente di ampi poteri investigativi in ambito patrimoniale: l’art. 14 prevedeva che le indagini fossero effettuate «anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che nell’ultimo quinquennio avessero convissuto con le persone indicate nel comma precedente, nonché nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, associazioni od enti del cui patrimonio dette persone risultino poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente»Al tribunale venne inoltre riconosciuto, a norma del citato art. 14, comma 5, il potere di ordinare, persino d’ufficio, il sequestro dei beni il cui possesso la persona sospettata non avesse saputo giustificare, in base al proprio reddito conosciuto.
L’arsenale istruttorio[180] del procuratore della Repubblica si arricchiva delle «intercettazioni preventive»[181] previste dall’art. 16 della legge, che consegnava, non al giudice, ma al procuratore, il potere di disporre, a scopo di controllo, con decreto «l’intercettazione di conversazioni telefoniche, telegrafiche, telematiche» nei confronti di soggetti sottoposti a misure di prevenzione. Nel mitigare però le conseguenze di una potestà così eccentrica rispetto al dettato costituzionale – in particolare all’art. 15 – il terzo comma dell’art. 16 stabiliva che gli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni potessero essere utilizzati «esclusivamente per la prosecuzione delle indagini»[182] e fossero, quindi, «privi di ogni valore ai fini processuali».

6.4.        Il contesto storico

Ecco che il tragico omicidio del Gen. Dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre 1982, si trasformò, per i mafiosi, in un boomerang: l’opinione pubblica insorse ed esercitò una forte pressione sul Parlamento, che in tempi estremamente brevi andò ad approvare la legge Rognoni – La Torre che fece da apripista per la comparsa dell’art. 416-bis[183]ai sensi del quale, oggi, le organizzazioni mafiose possono essere considerate alla stregua di vere e proprie associazioni criminali
L’omicidio, nell’estate del 1980, di Gaetano Costa, Procuratore capo di Palermo, rimasto isolato nel tentativo di attaccare ricchezze e proprietà di Cosa Nostra[184], indusse Rocco Chinnici, Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, a mettere in atto uno storico cambio di strategia nella lotta contro la mafia. Ci fu la presa d’atto che assegnare un’inchiesta relativa al fenomeno mafioso a un singolo magistrato significava esporlo fatalmente al fuoco nemico e, contemporaneamente, anche alle fastidiose e controproducenti chiacchiere di Palazzo[185]. Venne dunque ideato un pool antimafia, nello specifico un gruppo di magistrati che focalizzasse tutti gli sforzi sulle indagini concernenti Cosa Nostra e sulle sue attività criminali, affinché il carico di lavoro fosse condiviso da un numero maggiore di professionisti e il rischio individuale decrescesse in maniera considerevole. L’idea venne poi ulteriormente sviluppata da Antonino Caponnetto, con il gruppo originario formato dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello e, in seguito, Leonardo Guarnotta.  Rocco Chinnici morirà il 29 luglio 1983 a seguito di un attentato davanti a casa sua, avvenuto per mezzo di una Fiat 126 riempita di tritolo[186].

6.5.        La L. n. 327 del 1988 e l’osservanza del principio di legalità

Nel 1988, in seguito alle varie pronunce con cui la Consulta[187] evidenziò gli aspetti di incompatibilità con la Costituzione delle misure di prevenzione, il legislatore intervenne con la L. 3 agosto 1988, n. 327, modificatrice della L. n. 1423 del 1956. 

Tale provvedimento introduceva, rispetto al sistema precedente, talune novità che toccavano essenzialmente tre profili: la definizione delle categorie soggettive suscettibili di essere assoggettate alle misure preventive, il loro procedimento applicativo e, infine, il contenuto delle misure stesse.
Per quanto attiene al primo aspetto[188], la legge sembrava avviare un’inversione di tendenza e puntare al conseguimento di un duplice obiettivo: da un lato, la depurazione dell’elenco delle categorie soggettive; dall’altro, la delimitazione dei margini di valutazione discrezionale da parte dell’Autorità chiamata a deciderne l’applicazione, attraverso l’ancoraggio delle misure alla presenza di «elementi di fatto». Dalla lettura dell’art. 2 della legge si notava che le misure avrebbero potuto essere disposte a carico di coloro che, appunto sulla base di elementi di fatto, fossero ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi[189]; a coloro i quali «per la loro condotta ed il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»; a chi «per il comportamento debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica[190]». La riscrittura comportava la scomparsa dal nostro ordinamento – «dopo una lunga vita che si è protratta fin quasi alle soglie del terzo millennio»[191] – della figura dei cc.dd. “oziosi e vagabondi”.
Per ciò che attiene al procedimento di applicazione, gli elementi di novità risiedevano nella sostituzione della diffida con l’avviso orale – che consisteva nella comunicazione dell’esistenza di sospetti a carico del soggetto, dei motivi che li giustificavano e nel contestuale invito a tenere una condotta diversa e conforme alla legge[192] – e  nella possibilità di ottenere un provvedimento di riabilitazione da parte dell’interessato, che poteva essere richiesto alla Corte d’appello, nel cui distretto rientrava l’autorità che ne aveva disposto l’applicazione dopo tre anni dalla cessazione della misura di prevenzione e solo sulla base della prova data di una «costante ed effettiva buona condotta».

Infine, in relazione al terzo aspetto, si prevedeva che le misure continuassero a «ruotare intorno all’istituto della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza»[193], cui si poteva accompagnare anche il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o Province ovvero l’obbligo di soggiorno nel Comune in cui l’interessato risiedeva o dimorava abitualmente, ma non più l’obbligo di soggiorno in Comuni diversi e lontani da quello d’origine. 
Le modifiche introdotte, se per un verso testimoniano l’intento del legislatore di intervenire, modificandoli, sugli aspetti della disciplina previgente – soprattutto attraverso un’accentuazione dei suoi contenuti garantistici –, per l’altro lasciavano residuare perplessità di ordine generale circa la conformità costituzionale del sistema di prevenzione, complessivamente considerato[194].

6.6.        Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso

Il passo successivo fu rappresentato dalla L. 19 marzo 1990, n. 55 che inserì nell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 un inciso che permetteva di spezzare[195], «in caso di assenza, residenza o dimora all’estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione»[196], il nesso di necessaria contestualità delle due misure[197].
Nel tentativo di fronteggiare l’incessante dilagare della criminalità organizzata, specie di stampo mafioso[198], la stessa legge n. 55 del 1990 subiva delle notevoli modificazioni nella parte concernente lo scioglimento ex officio degli organi collegiali degli enti locali contemplato dal D.L. 31 maggio 1991, n. 164, convertito con modificazioni dalla legge 22 luglio 1991, n. 221. Quasi contemporaneamente, il decreto del 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, inaspriva, altresì, il regime della custodia cautelare in carcere in relazione ai presunti autori di reati particolarmente gravi[199], rafforzava il coordinamento dei servizi di polizia giudiziaria[200] e modificava in più punti la legislazione antimafia[201].
Inoltre, il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356, recante «modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimento di contrasto alla criminalità mafiosa», irrobustiva la normativa contro la delinquenza organizzata, conferendo nuovi poteri all’autorità di pubblica sicurezza, al Pubblico ministero ed in particolare al Procuratore nazionale antimafia[202], estendendo la sfera di applicazione della disciplina della c.d. “certificazione antimafia”[203] e ripristinando la facoltà di arresto anche senza flagranza (che fu soppressa con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale) per il caso di inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno[204].

7.   Verso una legislazione unitaria

7.1.        I pacchetti sicurezza del 2008 e del 2009

Tra le ultime tappe dell’evoluzione normativa dell’istituto in esame devono essere citati i cc.dd. “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009. In particolare, il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», è intervenuto profondamente sul sistema delle misure di prevenzione, prevedendo tra le altre cose: l’applicabilità delle leggi antimafia – e, dunque delle misure personali e patrimoniali – oltre che «agli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso», anche «agli indiziati della commissione di uno dei delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.»; l’estensione della legge antimafia – e dunque delle misure patrimoniali – alle persone pericolose dedite a traffici delittuosi o che vivono abitualmente con il provento di attività delittuosa[205]; la possibilità di applicare disgiuntamente le misure personali e patrimoniali, con la rimodulazione del c.d. nesso di accessorietà[206]
La dottrina[207] proponeva già da tempo di rendere le misure di prevenzione patrimoniali autonome da quelle personali per non rischiare di coinvolgerle nelle questioni di legittimità costituzionale di cui erano spesso bersaglio le seconde[208]. Lo sganciamento parziale, è stato detto[209], era garantito, prima della riforma, dalla possibilità di pronunciare la confisca anche in caso di assenza, residenza o dimora all’estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione[210]
L’intervento seguente si è avuto con la legge 15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica», con la quale il legislatore, intervenendo sulla disciplina dettata dalla legge n. 125 del 2008, ha operato sui due diversi aspetti dell’istituto in esame: ha cercato di superare alcuni dubbi interpretativi circa la possibilità di applicare le misure patrimoniali disgiuntamente da quelle personali, ma anche di riformare la procedura di destinazione dei beni oggetto di ablazione rendendola più agile e snella, così da ovviare agli inconvenienti del vecchio sistema che consentivano, seppur indirettamente, l’assegnazione dei suddetti beni agli stessi proposti[211].

7.2.        La riorganizzazione delle misure di prevenzione

La copiosità della legislazione relativa alle misure di prevenzione e le negative conseguenze derivanti dalla sua disorganicità hanno reso più diffusa la richiesta di un vero e proprio codice antimafia in cui raccogliere l’intera normativa[212]
Con l’art. 1 della legge 13 agosto 2010, n. 136, il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare, entro un anno, un decreto legislativo recante il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione che avrebbe dovuto prevedere: per la materia penale, una completa ricognizione della normativa vigente in materia di contrasto alla criminalità organizzata; per le misure di prevenzione, la ricognizione, l’armonizzazione e il coordinamento della disciplina vigente, che avrebbe dovuto essere aggiornata e modificata alla luce di numerosi principi e criteri direttivi. 
Il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, entrato in vigore il 13 ottobre 2011, si è limitato, però, a riorganizzare[213] la sola materia delle misure di prevenzione, cui sono seguite alcune modifiche sulle nuove categorie di pericolosità per la prevenzione della violenza sportiva[214] e del terrorismo internazionale[215]. Anche a causa di una delega scarna e generica[216], il legislatore delegato ha apportato una mera ricognizione e armonizzazione della legislazione vigente, con l’aggiunta di qualche adeguamento normativo al diritto vivente affermatosi sul piano giurisprudenziale[217]. La novità più rilevante è costituita dall’ampliamento della platea dei soggetti destinatari della normativa di cui all’articolo 4, in particolare:

  1. agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.;
  2. ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del c.p.p. ovvero del delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356;
  3. ai soggetti di cui all’articolo 1;
  4. a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo IV, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale;
  5. a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere un’attività analoga a quella precedente; 
  6. a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostruzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza;
  7. fuori dai casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lettera d);
  8. agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati;
  9. alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401.

7.2.1.     L’ampliamento dei soggetti destinatari

Come può agevolmente constatarsi dalla lettura dell’art. 4 del D.Lgs. n. 159 del 2011, il legislatore della riforma ha ampliato notevolmente il novero dei destinatari delle misure di prevenzione, utilizzando due tecniche di redazione diverse: da un lato, prediligendo il riferimento agli «atti preparatori, obiettivamente rilevanti». Dall’altro utilizzando come base i soggetti già condannati per una serie di reati quando è «ragionevole ritenere» che in futuro possano commettere reati della stessa specie, con ciò rischiando di trasformare la misura di prevenzione in una misura di sicurezza[218].
Questo ha determinato un evidente aumento dei soggetti destinatari in controtendenza rispetto alle lesgislazioni di altri Paesi[219], che si sono, da sempre, limitati a reprimere il crimine realizzato e non a prevenirlo in ogni modo, anche a costo di limitare la libertà dei cittadini, non raggiunti da alcuna sentenza di condanna[220].

7.3.        I primi timidi tentativi di modifica ad una legislazione ancora poco organica

Le prime modifiche sono ad opera della legge del 2012[221], che, modificando l’art. 8, comma 5 del codice antimafia, aggiunge, tra le prescrizioni che il giudice può imporre a taluni destinatari delle misure di prevenzione, il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente da minori. Successivamente, il decreto-legge del 2014[222], modificando l’art. 4, comma 1, lettera i) del codice antimafia, amplia il ventaglio delle condotte violente che, in occasione di manifestazioni sportive, determinano l’applicazione di una misura di prevenzione.
Modifiche più recenti sembrano confermare la propensione del legislatore a ricorrere alle misure di prevenzione per contrastare le forme di criminalità – percepire o presentate come le – più pericolose tramite la creazione del c.d. “terzo binario ad alta velocità”[223]
Con il decreto-legge del 2015[224] si rafforza ed amplia lo strumentario delle misure di prevenzione messe in campo per il contrasto al terrorismo, anche internazionale, introducendo, tra i soggetti destinatari, anche i potenziali «foreign fighters»[225].

7.4.        La continua evoluzione legislativa

Proposte organiche di modifica sono state avanzate, già nel 2013, da due commissioni governative: la prima, istituita nel giugno del 2013 dal Ministero della Giustizia “Per elaborare proposte di riforma in materia di criminalità organizzata”; la seconda, istituita dal Presidente del Consiglio con decreto del 7 giugno 2013, “Per una moderna politica antimafia. Analisi del fenomeno e proposte di intervento e di riforma”. 
Questi documenti sono stati utilizzati nell’iter della legge n. 161 del 2017[226], avviato dalla proposta di iniziativa popolare avanzata da numerose associazioni, presentata il 3 giugno 2013 (AC. 1138), recante “Misure per favorire l’emersione della legalità e la tutela dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata”. 
Il legislatore, nel 2017, è tornato a mettere mano al sistema delle misure di prevenzione con una legge che – contestualmente e quasi silenziosamente[227] – incide in modo significativo anche in altri ambiti dell’ordinamento penale. Un aspetto innovativo si rinviene all’art. 1 del testo di riforma e consiste in un notevole ampliamento dei destinatari delle misure di prevenzione[228], accompagnato da una modifica del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali[229]. Particolarmente rilevante – soprattutto per il clamore mediatico che ha suscitato[230] – appare l’introduzione, ad opera dell’articolo 12 della riforma, di un nuovo Capo V-bis, a chiusura del Titolo II del codice antimafia, destinato a contenere un’unica disposizione, l’art. 34-ter, rubricata «Trattazione prioritaria dei procedimenti di prevenzione patrimoniale». La nuova norma prevede che sia «assicurata priorità assoluta» ai procedimenti volti all’applicazione di queste misure: a tal fine, la disposizione impone ai dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti di adottare i provvedimenti organizzativi necessari a garantire la trattazione prioritaria, con la precisazione che tali provvedimenti debbano essere comunicati al consiglio giudiziario e al CSM. 
Il legislatore del 2017 mostra di avere ben presente la necessità di affinare il sistema della prevenzione antimafia con la necessità di salvaguardare la libertà d’impresa e il mantenimento dei livelli occupazionali, e lo fa muovendo da tre punti fermi[231]: in primo luogo, apprestare adeguate garanzie ai diritti delle parti e dei terzi[232]; prestare massima attenzione al “fattore tempo” nella definizione del procedimento e nell’adozione delle decisioni che riguardano la prosecuzione dell’attività d’impresa[233]; affinare gli strumenti di selezione di coloro cui è affidata l’amministrazione giudiziale delle aziende e garantire continuità nella direzione della – e nella – gestione.

7.5.        Gli interventi della giurisprudenza europea

Il legislatore italiano, come visto, ha modificato, nel tempo, molte norme del corpus del codice antimafia, ma non ha ritenuto di fornire alcuna risposta concreta al vuoto che si è creato nel sistema in esito alla pronuncia della Corte EDU[234], a seguito della quale è intervenuta la giurisprudenza interna con sentenze riparatrici[235] e la Corte Costituzionale a colmarne le lacune.  
Con una decisione forte, che suona come un avvertimento all’Italia, la Corte di Strasburgo ha statuito che la normativa italiana in materia di misure di prevenzione – la legge n. 1423 del 1956 oggi trasposta nel decreto n. 159 del 2011 – è incompatibile con l’art. 2, protocollo 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[236], oltre che con l’articolo 6 della stessa, con riguardo al solo diritto del proposito dell’udienza pubblica. La Corte ha riconosciuto la violazione della libertà di circolazione, ritenendo che fosse stato, in principio, già il legislatore nazionale ad errare[237] in quanto la normativa che regolava la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, sia con riguardo alle fattispecie soggettive, sia con riguardo alle prescrizioni, era talmente generica ed indeterminata da minare i principi di legalità e prevedibilità. La Grande Camera ha sostenuto infatti che «le misure di prevenzione possono essere applicate, ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni, per garantire la prevedibilità e per limitare un’eccessiva discrezionalità nell’attuazione»[238] evitando quelle norme penali in bianco che caratterizzano il sistema. 
Questi gli ultimi passi mossi in materia, considerando che il 2018 non ha visto realizzarsi, nel settore delle misure di prevenzione, interventi legislativi di particolare rilievo[239], così come gli anni successivi.

7.6.        L’interpretazione del giudice di legittimità

All’indomani della pronuncia della sentenza della Grande Camera, la giurisprudenza di legittimità[240] ha cercato di interpretare le disposizioni de quibus in maniera precisa, in modo da colmare il deficit individuato dai giudici di Strasburgo[241]. Sono le sentenze del 27 febbraio 2019, n. 24 e n. 25 della Corte Costituzionale a riscrivere, in maniera significativa, la disciplina delle misure di prevenzione. 
Con la sentenza n. 24 del 2019 è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956 e dell’articolo 19 della legge 22 maggio 1975, nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto n. 159 del 2011, nella parte in cui consentivano rispettivamente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, nonché il sequestro e la confisca di cui all’articolo 2-ter della legge n. 575, anche ai soggetti indicati nel numero 1) del suddetto art. 1.
Con sentenza n. 25 del 2019 è stata, invece, sancita l’illegittimità dei commi 1 e 2 dell’art. 75 del decreto n. 159 del 2011 nella parte in cui prevedevano rispettivamente come reato contravvenzionale o come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale senza o con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi»[242].

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[1] G. De Francesco, Diritto Penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, 2018, p. 3 ss.

[2] R. A. Frosali, Sistema penale italiano, Torino, 1958, Vol. III, p. 184 ss., così come riportato da R. Guerrini, L. Mazza e S. Riondato, Le misure di prevenzione, Profili sostanziali e processuali, Verona, 2004, p. 4.

[3] R. Guerrini e L. Mazza Le misure di prevenzione, Profili sostanziali e processuali, Verona, 1996, p. 4.

[4] G. Marini, voce Pena (diritto penale), in Noviss. Dig. It., App. V, 1984, p. 792 ss.

[5] R. Guerrini, L. Mazza e S. Riondato, op.cit., p. 4.

[6] Sulla distinzione tra neutralizzazione e rieducazione, all’interno della prevenzione speciale, cfr. F. Palazzo, Pene accessorie e sanzioni interdittive nella riforma del codice penale, in Problemi generali di diritto penaleContributi alla riforma, Milano, 1982, p. 246. 

[7] P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 633 ss.

[8] T. Padovani, Giustizia criminale. Radici, sentieri, dintorni, periferie di un sistema assente, vol. II, Misure di sicurezza e misure di prevenzione, Pisa, 2014, p. 7.

[9] Ibidem.

[10] Così, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2009, p. 796. In quest’opera, l’Autore analizza la crisi dei fondamenti del diritto penale espressa dal profondo divario tra il sistema normativo delle garanzie e il funzionamento effettivo delle istituzioni punitive. Ne rintraccia le radici nella fragilità del modello garantista tramandato dagli illuministi e nel continuo riemergere di archetipi penali e di mai spente tentazioni autoritarie. Illustra le forme d’illegittimità e ingiustizia prodotte dall’inadeguatezza o dalle lesioni delle singole garanzie e propone, di fronte a quella che chiama «crisi del mondo», una rifondazione filosofica e politica nel quadro di una teoria generale del garantismo.

[11] Interessante in tal senso M. Pelissero, Il diritto penale preventivo nell’epoca dell’insicurezza, in Ragion Pratica, 2018, fasc. 1, p. 79, che specifica come la storia del diritto penale sia costantemente condizionata dal rapporto tra sicurezza e libertà, perché è nello statuto costitutivo del diritto penale il rapporto complesso ed antinomico tra la sicurezza dei diritti – nelle varie declinazioni che fondano la legittimazione dell’intervento penale – e l’incidenza del controllo penale sulle libertà individuali.

[12] M. Pelissero, Il diritto penale preventivo nell’epoca dell’insicurezza, cit., p. 80, 

[13] D.L. 20 febbraio 2017, n. 14, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città, conv. con mod. dalla L. 18 aprile 2017, n. 48.

[14] Così R. Cornelli, Decreto sicurezza, un concetto pigliatutto poco mirato sui diritti, in Guida al Dir., 2017, 13, p. 10 ss.

[15] E. Resta, In Aa.Vv, Delle pene senza delitto. Le misure di prevenzione nel sistema contemporaneo: dal bisogno di controllo all’imputazione del soggetto, V Convegno nazionale dell’Associazione Italiana dei professori di diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, p. 399, specifica anche che, dal punto di vista delle politiche pubbliche, questi aspetti diventano poi stridenti. Con l’acuirsi dell’allarme per il terrorismo, ad esempio, la peculiare forma di espulsione disposta, a titolo di misura di prevenzione dal Ministro dell’Interno, per motivi di sicurezza nazionale, nei confronti di soggetti ritenuti (per meri indizi) pericolosi, ha assunto una funzione vicaria del procedimento penale, senza, ovviamente, le sue garanzie.

[16] P.V. Molinari, U. Papadia, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, Milano, 2002, p. 3 ss.

[17] Così D. Petrini, in La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, 1996, p. 10 ss. «Dal 1567 sino alle Reali Costituzioni di Carlo Emanuele del 1770, si assiste al progressivo strutturarsi come fattispecie delittuose di ipotesi inizialmente colpite con meccanismi preventivi. Paradossalmente, cioè, i delitti di oziosità, vagabondaggio e mendicità che la codificazione liberale sarà costretta ad espellere dal proprio tessuto per mantenere salda la purezza del sistema, relegandoli nelle leggi di p.s. (ndr pubblica sicurezza), sono originariamente costruiti come status soggettivi, condizioni di vita, appartenenza razziali, sanzionati solo con misure preventive personali (espulsione o bando), la cui osservanza veniva presidiata con pene detentive e patrimoniali (la confisca dei beni), quest’ultime antesignane della attuali conseguenze patrimoniali delle misure personali. Così avviene in tutti gli atti legislativi sabaudi dal 1567 sino al 1720, che intervengono indifferentemente contro oziosi, vagabondi, zingari, questuanti forestieri, sospetti di furto, residenti o forestieri senza reddito o professione certi. Solo con le Disposizioni delle Reali Costituzioni di Vittorio Amedeo del 1723 la condizione di zingaro o vagabondo diventa circostanza aggravante, in caso di commissione di delitti».

[18] Si riporta, per chiarezza espositiva, il testo integrale dell’art. 270 del codice penale napoleonico del 1810: «I vagabondi, o persone che non diano conto di sé, sono coloro che non hanno domicilio certo, né mezzi di sussistenza e che non esercitano abitualmente alcun mestiere o professione».

[19] T. Padovani, op.cit., p. 198.

[20] Ibidem.

[21] Per chiarezza espositiva si riporta il testo, nella parte interessata, del discorso dell’On. Galvagno nella seduta del 17 dicembre 1851, estrapolato dall’archivio della Camera dei Deputati in Legislatura IV, Sessione II: «Signori, l’ozio e il vagabondaggio quando non sono energicamente repressi dalla legge sono l’origine di gravissimi mali. L’ozioso e il vagabondo possono considerarsi come in permanente reato. Frodano la società della parte che da ogni cittadino si deve e non si può concepire, privi quali sono di messi, esistere senza supporre una continua sequela di truffe, di ladronacci e simili reati. […]. E perciò contro i vagabondi il governo allega il bisogno per qualche tempo ancora di disposizioni eccezionali».

Negli stessi termini, S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, Bologna, 2011, p. 112 ss, in cui si evidenzia come il periodo post-unificazione si sia caratterizzato per un’attenuazione della generalità delle legge, andando a prevedere procedure parallele. L’Autore descrive il fenomeno come una legislazione a doppio fondo che ha portato ad una «giuridicità debole», che è stata antecedente logico di una discrezionalità nell’uso del potere pubblico, di un aumento di conflittualità e di una legittimazione di ogni tipo di negoziazione tra cittadino e Stato sulla norma applicabile più favorevole.

[22] Il riferimento è alla legislazione del Regno di Sardegna, in particolare alla L. 26 febbraio 1852, n. 1339, Provvedimento di pubblica sicurezza contro gli oziosi e i vagabondi, che prende il nome dal proponente, l’allora Ministro dell’Interno Galvagno (1801-1874).

[23] O. Stradaioli, Le misure di prevenzione, in P. Pittaro (a cura di), Scuola Positiva e sistema penale: quale eredità?, Trieste, 2012, p. 121, sostiene chenel limitare l’ambito del diritto criminale al magistero repressivo, Carrara si preoccupò di evidenziare il profondo divario che intercorreva tra questo (il diritto criminale) e l’ufficio di polizia: entrambi i sistemi, se pur legittimi, non dovevano essere in alcun modo sovrapposti in quanto la compenetrazione tra magistero di polizia e diritto penale, tipica dei governi dispotici, apriva la strada ad ogni arbitrio e rendeva inetto lo strumento preventivo. Fu tuttavia proprio Carrara (F. Carrara, Programma al corso del diritto criminale, Firenze, 1897, p. 44) a ritenere che non fosse legittimo il ricorso a “pene di sospetto” e che non potesse essere prevista alcuna limitazione della libertà solo in base ad uno “status personale” in grado di far ritenere possibile o probabile la commissione di un reato; e ciò a dimostrazione del fatto che il disagio nei confronti delle misure di prevenzione ebbe origine quasi sin da subito.

[24] R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 12.

[25] R. Guerrini, L. Mazza e S. Riondato, op.cit., p. 13.

[26] Si riporta il testo integrale dell’articolo 69 del Codice Albertino: «I Giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio».

[27] Il riferimento è alla Legge sulla pubblica sicurezza del 13 novembre 1859, n. 3720. inserita nella Gazz. Piem. del 15 stesso mese a firma del Guardasigilli U. Rattazzi. 

[28] Così definita da G. Fiandaca, voce Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. Pen.1994, vol. VII, p. 17.

[29] Il riferimento è alla L. 15 agosto 1863, n. 1409, Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Province infette.

[30] Art. 5, L. n. 1409/1863.

[31] F. Barbagallo, Storia della camorra, Bari, 2010, p.29.

[32] Il riferimento è al Regolamento n. 1424 del 25 agosto 1863 e al Regolamento n. 1433 del 30 agosto 1863. 

[33] Il richiamo è all’art. 2 della L. Pica: «I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione, o co’ lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti. A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera, sarà applicata la pena de’ lavori forzati a vita, e concorrendovi circostanze attenuanti il maximum de’ lavori forzati a tempo».

[34] A. Cimmino, Le misure di prevenzione patrimoniali antimafia. Tra norme interne e prospettive sovranazionali, Milano, 2019, p. 22.

[35] Cfr. Art. 5 L. n. 1409/1863.

[36] P. Troncone, La legislazione penale dell’emergenza in Italia. Tecniche normative di incriminazione e politica giudiziaria dallo Stato liberale allo Stato democratico di diritto, Napoli, 2001, p. 99, precisa che «l’ipotesi attuale risponde in realtà ad una precisa logica di politica giudiziaria che, attraverso la forzatura del dato normativo, si propone di interrompere i collegamenti di soggetti terzi estranei con i singoli affiliati dell’organizzazione, allo scopo di vanificare gli apporti di cui l’associazione illecita potrebbe giovarsi. Nel pur comprensibile spirito di rilevanza dei fini, non può essere trascurato la contraddizione di questa nuova figura di reato con il principio di legalità costituzionale vigente, che mal si adatta a piegarsi a soluzioni dettate dalla contingenza. Il nostro Stato di diritto, che com’è noto dà luogo ad un sistema penale fondato sui principi di tassatività del fatto incriminato, di irretroattività dell’efficacia normativa della fattispecie di reato a fatti anteriormente commessi, e di legalità costituzionale della fonte di produzione normativa in materia penale, mal si concilia con scelte che, anche se imposte da fattori contingenti, non appaiono conformi ai principi fondamentali del nostro sistema penale. A differenza della situazione attuale, la previsione normativa dell’epoca concernente la punibilità dei manutengoli a titolo di concorso esterno eliminava quanto meno l’equivoco dell’ipocrita applicazione di una norma inesistente nell’ordinamento».

[37] G. Di FioreLa camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime «guerre», Torino, 2006, p. 69. 

[38] T. Padovani, op.cit., p. 208.

[39] P. Troncone, op. cit., p. 100, osserva che il pentitismo nella legislazione penale italiana trova, probabilmente, le sue «radici proprio nelle leggi per la lotta al brigantaggio post-unitario».

[40] Molte delle disposizioni della L. 20 marzo 1865, n. 2248, Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, sono ancora oggi in vigore. La legge comprende una serie di allegati: la legge comunale provinciale (Allegato A), la legge di pubblica sicurezza (Allegato B), la legge sulla carità pubblica (Allegato C), la legge sul Consiglio di Stato (Allegato D), la legge sul contenzioso amministrativo (Allegato E) e la legge sulle opere pubbliche (Allegato F).

[41] T. Padovani, op.cit., p. 211.

[42] R. Villari, Mille anni di storia: dalla città medievale all’unità dell’Europa, Bari, 2018, p. 542.

[43] Il riferimento è al discorso d’inaugurazione del novello anno giuridico sull’amministrazione della giustizia pronunciato il 2 gennaio 1875 dal Procuratore generale del Re Giuseppe Vacca, Senatore del Regno, disponibile all’indirizzo https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Napoli_1875_Vacca_Nazionale_RM.pdf.

[44] Cfr. R. Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, culturali, evoluzione normativa, Milano, 2007, p. 25, in cui sostiene che «la legge (…) allarga esplicitamente queste misure a camorristi napoletani e mafiosi siciliani nonché ai “malandrini” delle province centrali e, segnatamente, della Romagna».

[45] In questi termini T. Padovani, op.cit., p. 212.

[46] F. Menditto, Presente e futuro delle misure di prevenzione (personali e patrimoniali): da misure di polizia a prevenzione della criminalità da profitto, in Dir. Pen. Cont., 2016, p. 5, precisa che le nuove misure previdero un’estensione dell’ammonizione ai “diffamati”.

[47] T. Padovani, op.cit., p. 212.

[48] F. Barbagallo, op.cit., p.43.

[49] Il riferimento è a Giovanni De Falco, Ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia dal 31 dicembre 1865 al 20 giugno 1866 durante il Governo di Alfonso La Marmora.

[50] Progetto (1870 – I), Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia coi lavori preparatori per la sua compilazione raccolti ed ordinati sui documenti ufficiali, Volume I, Firenze, 1870, p. 54ss.

[51] Queste le parole del membro della commissione F. Ambrosoli nella Relazione al progetto del 1870.  

[52] M. Da Passano, Il vagabondaggio nell’Italia dell’Ottocento, in Acta Histriae, 2004, XII, 1, p. 63.

[53] Fino a 3 mesi per l’ozioso e da 1 mese e 10 giorni a 3 mesi per il vagabondo.

[54] Il riferimento è a Paolo Onorato Vigliani, Ministro di Grazia e Giustizia del Regno d’Italia, nel suo secondo mandato, dal 10 luglio 1873 al 25 marzo 1876 durante il Governo di Marco Minghetti.

[55] Progetto (1874), Progetto del codice penale del Regno d’Italia preceduto dalla relazione ministeriale presentato al Senato del Regno nella tornata del 24 febbraio 1874 dal Ministro di Grazie e Giustizia (Vigliani), Roma, 1874, p. 173.

[56] La Commissione, istituita con decreto del 18 maggio 1876 dal Ministro Guardasigilli Mancini, era costituita da: S. E. il Comm. Raffaele Conforti, Comm. Francesco Saverio Arabia, Cav. Antonio Buccellati, Cav. Tancredi Canonico, Comm. Francesco Carrara, S. E. il Comm. Giovanni De Falco, Cav. Pietro Ellero, Comm. Francesco La Francesca, Comm. Lorenzo Nelli, Cav. Pietro Nocito, Comm. Cesare Oliva, Comm. Baldassarre Paoli, Comm. Giuseppe Piroli, Comm. Giuseppe Pisanelli, S. E. il Comm. Sebastiano Tecchio, Comm. Camillo Trombetta, Comm. Luigi Casorati, Avv. Emilio Brusa, Cav. Luigi Lucchini. 

[57] A causa delle dimissioni dello stesso Mancini alla fine del 1877.

[58] M. Da Passano, in op.cit., p. 63.

[59] Dal 29 maggio 1881 al 25 maggio 1883 ricoprì l’incarico di Ministro di Grazia e Giustizia del Governo Depretis.

[60] Progetto (1883), Relazione e progetto lasciato in corso di studio dal Ministro Zanardelli, Tornata lunedì 26 novembre 1883, Atti del Parlamento italiano, Discussioni della Camera dei Deputati, XV Legislatura, Sessione 1882-83, Volume VI, I Sessione, Roma, p. 4615 ss..

[61] In questi termini M. Sbriccioli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’unità d’Italia, in A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Bari, 1990, così come riportato da M. Da Passano, op.cit., p. 64.

[62] In questi termini, la Relazione del 1887 al Progetto del Codice penale per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Zanardelli) nella seduta del 22 novembre 1887, in Atti Parlamentari, Camera dei deputati, documenti XVI Legislatura, 2 sessione, 1887, Roma, Stamperia Reale.

[63] Ministro dell’Interno e Presidente dello stesso Consiglio in cui Zanardelli, nel medesimo periodo, fu Ministro di Grazie a Giustizia.

[64] M. Da Passano, op.cit., p. 65.

[65] Il R.d. 30 giugno 1889, n.6144, Che approva il testo della legge di pubblica sicurezza, coordinato col Codice penale, fa riferimento, tra gli altri, al lavoro, alla dimora stabile, al non associarsi a pregiudicati, all’uscita di casa e al rientro in determinate ore, al divieto di portare armi e di frequentare osterie. 

[66] Così come previsto dal R.d. 6144/1889 al Capo III, Dell’ammonizione, dagli artt. 94 ss.

[67] Il riferimento è al R.d. 8 novembre 1889, n. 6517, Che approva l’unito regolamento per l’esecuzione della legge 30 giugno sulla pubblica sicurezza, in GU n. 286 del 3 dicembre 1889, destinato ad entrare in vigore, unitamente alla legge, contemporaneamente al codice penale. 

[68] Si riporta il testo integrale dell’articolo: «il capo dell’ufficio di pubblica sicurezza della provincia o del circondario, con rapporto scritto, motivato e documentato, denunzierà al presidente del tribunale, per l’ammonizione, gli oziosi e i vagabondi abituali, validi al lavoro e non provveduti dei mezzi di sussistenza e i diffamati per delitti di cui agli articoli seguenti».

[69] Da sottolineare il seguente articolo 96 del R.d. 30 giugno 1889, n. 6144 che continua l’elencazione: «si avrà anche come diffamato chi è designato dalla voce pubblica come abitualmente colpevole di delitti di incendio, associazione per delinquere, furto, rapina, estorsione, ricatto, truffa, ricettazione, favoreggiamento di tali delitti e, per questi titoli, abbia subito condanna o sia incorso nei procedimenti indicati nell’articolo precedente».

[70] F. P. Gabrieli, Sistematica del diritto di polizia di prevenzioneScuola pos., 1956, p. 336 ss.

[71] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2015, p. 849 ss.

[72] In questi termini R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 13.

[73] Enrico Ferri, precursore della scuola positiva criminologica, riteneva che il disagio sociale potesse essere considerato una delle cause del crimine, tale per cui la prevenzione avrebbe dovuto essere un aspetto fondamentale della politica criminale; sosteneva infatti che un’efficace riforma sociale, economica, educativa, indirizzata soprattutto verso le classi sociali più povere del Paese, avrebbe potuto essere la forma più idonea a prevenire il crimine ab origine, rispetto ad una politica che invece si stava, in quei tempi, occupando solo di prevenire tramite la minaccia di pene detentive (E.Ferri, Sociologia criminale. Terza edizione completamente rifatta dei Nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Torino, 1892, p. 158, così come riportato da C. Latini, I “segni” della devianza e la criminalità dei poveri. Pena e prevenzione nel pensiero di Enrico Ferri, un socialista fuzzy, in Historia et ius, 2017, 11, p. 4 ss.)

[74] R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 13. 

[75] T. Padovani, op.cit., p. 214.

[76] Art. 100, R.d. 30 giugno 1889, n. 6144.

[77] Art. 101, R.d. 30 giugno 1889, n. 6144.

[78] Art. 102, R.d. 30 giugno 1889, n. 6144.

[79] T. Padovani, op.cit., p. 212.

[80] Art. 123, R.d. 30 giugno 1889, n. 6144.

[81] T. Padovani, op.cit., p. 217.

[82] Definite come un «pacchetto legislativo» (D. Petrini, in La prevenzione inutile, cit., p. 12).

[83] P. C. Masini, Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Milano, 1981, p. 55 s.

[84] Il riferimento è alla L. 19 luglio 1894, n. 314, Sui reati commessi con materie esplodenti, abrogata dal D.L. 22 dicembre 2009, n. 200, Misure urgenti in materia di semplificazione normativa, convertito con modificazioni dalla L. 18 febbraio 2009, n.  9.

[85] La legge fu approvata con l’opposizione dei soli radicali, in particolare Giovanni Bovio e Felice Cavallotti, che ritenevano sufficienti le leggi penali esistenti e temevano abusi da parte della polizia. 

[86] L. 19 luglio 1894, n. 315, Sulla istigazione a delinquere e sulla apologia di reati, commessi col mezzo della stampa, abrogata dal D.L. 22 dicembre 2009, n. 200, convertito con modificazioni dalla L. 18 febbraio 2009, n. 9.

[87] Il riferimento è alla L. 19 luglio 1894, n. 316, Sui procedimenti eccezionali di pubblica sicurezza, abrogata dal D.L. 22 dicembre 2009, n. 200, Misure urgenti in materia di semplificazione normativa, convertito con modificazioni dalla L. 18 febbraio 2009, n. 9.

[88] L’espressione veniva intesa come sinonimo di “uso della violenza” o “ricorso alla forza”. In questo senso, A. Ravizza, voce Vie di fatto, in Dig. It., Torino, 1919, p. 1008 ss.

[89] In questi termini Crispi nel 1889 a Palermo, in L. Lucchini (a cura di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, Roma, 1889, vol. III, p. 39, reperibile all’indirizzo http://bpr.camera.it/bpr/allegati/show/19302_2645_t.

[90] Art. 4 L. 19 luglio 1894, n. 316.

[91] Il riferimento è all’articolo 5 della legge in commento, che fu comunque approvato nonostante la vivace opposizione in Parlamento: i radicali e i socialisti temevano che le norme repressive avrebbero potuto trovare applicazione in modo indiscriminato anche ad altri gruppi politici. Per chiarezza si riporta il testo dell’intervento di Giovanni Bovio in Parlamento estrapolato dagli Atti Parlamentari della 1 sessione della tornata del 10 luglio 1894 in storia.camera.it: «Ho sentito dire che tutta questa discussione si muove contro l’anarchismo; ma ave[te] voi mai definito l’anarchismo? È o non è un’utopia, resta nell’ordine generale di tutte le utopie; e sin che è nel campo del pensiero è inattaccabile. Potete soltanto perseguitarlo quando si fa armato. Si ha un bel dire: esso è un reato! La storia, la parola, le tradizioni sono contro questa vostra affermazione. La parola anarchia è già una parola politica. Il socialismo è redenzione del quarto stato; l’anarchismo è il primo ruggito del quinto stato, invisibile, imponderabile».

[92] Tra cui si annoverano: la sottoposizione ai giudici, l’applicazione ai casi più gravi, la riconduzione del sistema all’amministrazione penitenziaria, l’aumento della pena, l’apertura di una colonia punitiva ad Assab per i recidivi incorreggibili. 

[93] C. Poesio, La questione criminale e il domicilio coatto nel giudizio dei socialisti in E. De Cristofaro, Il domicilio coatto, Ordine pubblico e misure di sicurezza in Italia dall’Unità alla Repubblica, Acireale, 2015, p. 105 ss., riportato da L. Lacchè, Uno “sguardo fugace”: le misure di prevenzione in Italia tra Ottocento e Novecento, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., fasc. 2, 2017, p. 423 ss.

[94] Il riferimento è al dibattito della tornata del 27 maggio 1925, in Atti Parlamentari della Camera dei deputati, Legislatura XXVII, 1 sessione, in storia.camera.it.

[95] O. Stradaioli, op.cit., p. 126.

[96] D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, in L. Violante (a cura di), Storia d’Italia, Torino, 1997, 12, p. 908.

[97] In questo senso, F. Rapino, La modernizzazione delle misure di prevenzione Riflessioni a margine dell’applicazione di misure personali e patrimoniali all’”evasore fiscale socialmente pericoloso”, in Dir. Pen. Cont., 2013, p. 5.

[98] G. Corso, L’ordine pubblico, Bologna, 1979, p. 185.

[99] D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale, cit., p. 912. 

[100] D. Petrini, La prevenzione inutile, cit., p. 135. 

[101] G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p. 293. 

[102] Composta, secondo l’art. 166 R.d. 18 giugno 1931, n. 773, dal «Prefetto, dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante dell’arma dei carabinieri reali nella provincia e da un ufficiale superiore della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, designato dal comando di zona competente».

[103] Artt. 166 e 167 del R.d. n. 1848/1926. 

[104] A. Manna, Natura giuridica delle misure di prevenzione: legislazione, giurisprudenza, dottrina, in Arch. Pen., 2018, p. 3.

[105] Ciò che più rileva è che, trattandosi di un diritto amministrativo di polizia, parallelo a quello penale, spesso il confino veniva irrogato dopo che il soggetto aveva scontato la pena detentiva nell’ambito di un processo penale. Questo è ciò che avvenne a diversi imputati, condannati a pene assai elevati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel famigerato “processone” del 1927, tanto che molti, dopo aver scontato la pena, vennero sottoposti al confino, come Sandro Pertini, Carlo Levi e Altiero Spinelli. Così, S. Carbone e L. Grimaldi, Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Sicilia, Roma, 1989, p. 3 ss.

[106] Art. 181 R.d. 18 giugno 1931, n. 773, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

[107] O. Stradaioli, op.cit., p. 127.

[108] Composta, secondo l’art. 166 R.d. 18 giugno 1931, n. 773, dal «Prefetto, dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante dell’arma dei carabinieri reali nella provincia e da un ufficiale superiore della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, designato dal comando di zona competente».

[109] Secondo G. Vassalli, La potestà punitiva, Torino, 1942, p. 351: «pur riconoscendo come nella misura di sicurezza domini l’intento difensivo contro la criminalità futura, non possiamo d’altro canto esimerci dal considerare che le misure di sicurezza presentano altresì, rispetto alle altre misure adottate dallo Stato nei confronti di soggetti o stati o cose pericolose, la spiccata peculiare esclusiva caratteristica di costituire mezzi di lotta contro il reato. È questo comune denominatore delle pene e delle misure di sicurezza, rappresentato dal costante rapporto che entrambe avvince al reato, che a nostro avviso neutralizza il carattere differenziale rappresentato dalla tendenza dell’un genere di misure alla prevenzione e dell’altro alla repressione». L’Autore conclude, poi, sostenendo che «se anche il potere di applicare ed eseguire misure di sicurezza patrimoniale è potere giurisdizionale, anch’esso, come il potere di punire, non può costituire un diritto soggettivo; ché come vedremo, soltanto in quanto amministrazione o governo lo Stato può essere ritenuto titolare di diritti soggettivi. E [che] anche qui ci si trovi in presenza non già di un diritto soggettivo, ma di una potestà dello Stato, (…), è confermato dal fatto che l’individuo soggetto alla misura di sicurezza non ha, né nel momento dell’applicazione né in quello della effettiva esecuzione, alcun obbligo vero e proprio di subire la misura, ma vi è unicamente sottoposto o giuridicamente sempre assoggettato».

[110] O. Stradaioliop. cit., p. 127.

[111] Art. 188 del R.d. n. 1848/1926 e art. 184 del R.d. n. 773/1931.

[112] G. Corso, L’ordine pubblico, cit., p. 302. 

[113] Cfr. Corte Cost., 23 giugno 1956, n. 2, in giurcost.org; Corte Cost., 3 luglio 1956, n. 11, in giurcost.org.

[114] F. Basile, Brevi considerazioni introduttive sulle misure di prevenzione, cit., p. 1521 ss.

[115] Ibidem

[116] M. Fattore, La prevenzione nelle garanzie costituzionali, in dirittodidifesa.eu, 16 aprile 2020.

[117] In relazione al mancato dibattito sulle misure di prevenzione in sede di Assemblea costituente, si è osservato: «rifiutata in sede costituente ogni discussione approfondita in proposito, espressamente al solo scopo di non riconoscerle (o forse di ignorarle, evitando problemi), le misure di prevenzione si trovano nel 1948 in una sorta di vuoto istituzionale»: così P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1948, p. 137, il quale rileva inoltre che «le critiche furono presto vivacissime, in dottrina e in giurisprudenza, proprio per effetto del silenzio della Costituzione in proposito, e quindi della prevalenza della inviolabilità della libertà personale».

[118] In questo senso R. Orlandi, Il sistema di prevenzione tra esigenze di politica criminale e principi fondamentali al Convegno dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, Cagliari-Forte Village, 29-31 ottobre 2015, p. 2.

[119] Cfr. Corte Cost., 23 giugno 1956, n. 2, cit.che dichiara l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 157 del t.u.l.p.s., approvato con R.d. 18 giugno 1931 n. 773, nella parte relativa al rimpatrio obbligatorio o per traduzione di persone sospette; dei commi secondo e terzo dello stesso articolo nelle parti relative al rimpatrio per traduzione salva l’ulteriore disciplina legislativa della materia. 

[120] Il testo integrale dell’art. 163 t.u.l.p.s. prevedeva: «Le persone rimpatriate con foglio di via obbligatorio non possono allontanarsi dall’itinerario ad esse tracciato.

Nel caso di trasgressione esse sono punite con l’arresto da uno a sei mesi.

Scontata la pena, sono fatte proseguire per traduzione.

La stessa pena si applica alle persone che non si presentano, nel termine prescritto, all’autorità di pubblica sicurezza indicata nel foglio di via».

[121] Così F. Menditto, Verso il Testo Unico delle misure di prevenzione: le prospettive di riforma del sistema, in Seminario di Studio Verso un giusto processo al patrimonio: dal contrasto alla criminalità organizzata all’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni, Bari, 5-6 maggio 2011, p. 5.

[122] «Perché sia garantita la corretta applicazione della misura del rimpatrio è necessario che il provvedimento sia adeguatamente motivato: solo l’enunciazione dei motivi sui quali la misura si fonda consente, da un lato, all’autorità giudiziaria di verificare che il rimpatrio non sia stato disposto per ragioni politiche ovvero per altre finalità non contemplate dall’art. 16 Cost. e, dall’altro, l’esercizio del diritto di difesa del proposto». Così, Corte Cost., 23 giugno 1956, n. 2, cit.

[123] Il considerando in diritto n. 4 della citata sentenza n. 2 del 1956 precisa che «l’art. 16 della Costituzione esclude espressamente che le limitazioni alla libertà di circolare possano essere determinate da ragioni politiche; dal che discende che il provvedimento del rimpatrio debba specificare i motivi, per dare modo alle stesse Autorità di p.s. e, soprattutto, all’Autorità giudiziaria di accertare che il rimpatrio non sia stato disposto per ragioni politiche o per altri motivi non previsti dall’art. 16 della Costituzione e dall’art. 157 leggi p.s., cioè illegalmente». 

[124] In tal senso la Consulta specifica che «la motivazione appare necessaria per consentire al cittadino l’esercizio del diritto di difesa». Tale diritto è garantito dall’art. 24 e non può dubitarsi che il cittadino debba in ogni caso essere posto in grado di difendersi legalmente contro qualsiasi provvedimento dell’autorità; il che non può avvenire se non contestati i motivi, cioè i fatti, che lo hanno provocato. 

[125] T. Padovani, op.cit., p. 226.

[126] Corte Cost., 3 luglio 1956, n.11, cit.

[127] Cfr. Corte Cost., 3 luglio 1956, n.11, cit., con nota di P. Nuvolone, Norme penali e principi costituzionali, in Giur. Cost., 1956, p. 1259 ss.

[128] Così chiamato da T. Padovani, op.cit., p. 228.

[129] In tal senso R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 15.

[130] Il riferimento è alla L. 27 dicembre 1956, n.1423, Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.

[131] P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 633; nello stesso senso, A. Manna, Natura giuridica delle misure di prevenzione, cit., p. 3, ritiene che «dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948, sembrava che il diritto di polizia avrebbe ceduto il passo al più garantista diritto penale del fatto: pia illusione che infatti fu presto contraddetta dal varo addirittura di una legge generale che introduceva e disciplinava le misure di prevenzione personali con lo scopo di giurisdizionalizzare le misure di prevenzione in armonia, almeno apparente, con la Carta costituzionale». 

[132] E. Stanig, L’evoluzione storica delle misure di prevenzione, in F. Fiorentin (a cura di), Misure di prevenzione personali e patrimoniali, Torino, 2018, p. 36. 

[133] Così P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 633.

[134] In tal senso N. D’Argento, Misure di prevenzione, Napoli, 1979, p. 38.

[135] Così definite da P.V. Molinari, U. Papadia, op.cit., p. 10.

[136] Art. 1 L. n. 1423 del 1956.

[137] La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, n. 3 della legge in commento nella parte concernente coloro che, «per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere», in quanto ometteva di descrivere le condotte cui riferire un accertamento giudiziale, anche se solo prognostico. Cfr. Corte Cost., sent. 22 dicembre 1980, n. 177, in Giur. Cost., 1980, 12.

[138] T. Padovani, op.cit., p. 233.

[139] Art. 3 L. 27 dicembre 1956, n. 1423. 

[140] Art. 4 L. 27 dicembre 1956, n. 1423.

[141] T. Padovani, op.cit., p. 234.

[142] L’articolato è chiaro nel non prescrivere l’obbligatorietà dell’intervento di un difensore. In tal senso, nel 1970, la Corte Costituzionaledichiarava l’illegittimità dell’art. 4, comma 2, L. 27 dicembre 1956, n. 1423 nella parte in cui non prevedeva l’assistenza obbligatoria del difensore, per violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24, comma 2, Cost. (Corte Cost., 25 maggio 1970, n. 76, in giurcost.org). La decisione fu conseguenza diretta di una precedente sentenza (Corte Cost., 29 maggio 1968, n. 53, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1968, p. 1272) che aveva, per la stessa ragione, dichiarato l’illegittimità degli artt. 636 e 637 c.p.p. (1930) nella parte in cui non tutelavano il diritto di difesa, dato che proprio a tali disposizioni faceva riferimento l’art. 4 L. n. 1423 del 1956. 

[143] T. Padovani, op.cit., p. 234.

[144] Queste le parole di Giovanni Falcone in un convegno a Palermo nella primavera del 1988.

[145] «La Corte si limitò a giudicare gli esecutori della strage di Portella della Ginestra e degli attentati alle sedi del PC, escludendo – quanto meno giudiziariamente – l’esistenza di motivazioni e mandanti politici o mafiosi. La sentenza di condanna, emessa il 3 maggio 1952, a parere del giudice Giuseppe Di Lello, può veramente considerarsi storica. Da essa traspare lo sforzo fatto dai giudici per attribuire tutta la responsabilità dell’accaduto alla banda Giuliano, e per assolvere qualunque personalità politica fosse stata coinvolta nel processo. Dietro questo processo – davvero “politico” – vi era la necessità di cautelare l’equilibrio politico moderato che era stato raggiunto dai partiti alla guida del Paese». In questi termini, G. Scolaro, Il movimento Antimafia Siciliano – Dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Siviglia, 2008, p. 174.

[146] In tal senso S. Lodato, Quarant’anni di mafia. Storia di una guerra infinita, Milano, 3 ed., 2013, p.14.

[147] Così V. Pilato, La Mafia, la Chiesa, lo Stato, Torino, 2009, p. 31. 

[148] S. Lodato, op.cit., p.14.

[149] Il riferimento è alla L. 31 maggio 1965, n. 575, Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere

[150] R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 15.

[151] T. Padovani, op.cit., p. 235.

[152] Art. 1 L. 31 maggio 1965, n. 575. 

[153] F. Menditto, Presente e futuro delle misure di prevenzione, cit., p. 6.

[154] D. Siracusano, Indagini, indizi e prove nella nuova legge antimafia, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, Milano, 1984, vol. II, p. 1422 ss.

[155] Sul punto è stata posta la questione se l’art. 1, L. n. 575 del 1965 fosse conforme ai principi costituzionali ed in particolare a quelli del nulla poena sine lege (art. 25 Cost.), della non ammissibile restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (art. 13 Cost.) nonché dell’uguaglianza dei cittadini difronte alla legge (art. 3 Cost.). La risposta fornita dalla giurisprudenza è stata affermativa; e ciò in quanto l’art. 1 «regola in modo tassativo i presupposti e le condizioni di applicazione delle misure di prevenzione ai soggetti indiziati di appartenenza ad organizzazioni mafiose»; e poi perché tali misure vanno disposte con «provvedimento motivato dell’Autorità giudiziaria che applica una disciplina volta a prevenire attraverso il controllo e le limitazioni imposte agli indiziati le manifestazioni di quelle organizzazioni e dei loro adepti connotati da elevata pericolosità sociale, non in base a meri sospetti o semplici presunzioni, bensì sulla scorta di indizi che qualificano la condotta di quei soggetti come significativa di probabile appartenenza alle suddette organizzazioni»; ed infine perché le più severe sanzioni penali sono riservate «alla certezza delle acquisizioni probatorie nel processo penale, sicché il diverso trattamento rispetto agli atri cittadini trova radice e giustificazione nella diversità di condizioni in cui versano quei soggetti oltre che nella peculiare insidia, diffusa ancorché sommersa, che caratterizza il loro essere e la loro metodologia di azione ed infine nella dimostrata propensione ad una contagiosa propaganda»: Cass. Pen., sez. I, sent. 18 maggio 1992, n. 2186, in CED, rv. 191582.

[156] Art. 2 L. 31 maggio 1965, n. 575: «Le misure di prevenzione della sorveglianza speciale e del divieto o dell’obbligo di soggiorno (…) possono altresì venir proposte dai procuratori della Repubblica, anche se non vi sia stata diffida, ferma restando la competenza a decidere stabilita nell’articolo 4 della legge n.1423 del 1956».

[157] Quale che siano i motivi, la scelta di coinvolgere il Procuratore nell’avvio del procedimento di prevenzione avrà un effetto di grande rilievo nelle sorti di questa procedura. In tal senso R. Orlandi, op.cit., p. 3.

[158] Art. 7 L. 31 maggio 1965, n. 575: «Le pene stabilite per i delitti preveduti negli articoli 378, 379, 416 e 435 del Codice penale sono aumentate e quelle stabilite per le contravvenzioni (…) sono raddoppiate, se il fatto è commesso da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misure di prevenzione».

[159] In tal senso T. Padovani, op.cit., p. 236.

[160] L. Capriello, La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale ed il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale ed europeo, in Giur. Pen., n. 6, 2017, p. 5.

[161] In realtà, dal testo della legge si evince come, accanto alle misure personali, sia stata introdotta una prima misura patrimoniale: la cauzione da versare a garanzia degli obblighi imposti con la misura personale agli indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa, confiscata poi nel caso di accertamento delle violazioni. 

[162] Art. Unico L. 22 novembre 1967, n. 1176, Modificazioni della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, concernente misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità: «Il numero 4) del primo comma dell’art. 1 della legge del 1956 è sostituito dal seguente: “4) coloro che, per il loro comportamento, siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ovvero a esercitare traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l’uso, o a gestire abitualmente bische clandestine, o infine ad esercitare abitualmente scommesse abusive nelle corse”».

[163] P.V. Molinari, U. Papadia, op.cit., p. 11.

[164] L. Mazza, Le misure di prevenzione: un passato nebuloso, un futuro senza prospettive, in Riv. Pol, 1992, p. 385 ss, così come riportato da R. Guerrini, L. Mazza e S. Riondato, op. cit., p. 13.

[165] La L. 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, fu promulgata nella VI Legislatura sotto il IV governo Moro e il principale redattore della legge fu il Ministro di Grazia e Giustizia, appartenente al Partito Repubblicano Italiano, Oronzo Reale. 

[166] Nella realtà, come osservano R. Guerrini e L. Mazza, op. cit., p. 16., si tratta di una vera e propria svolta, destinata ad incidere profondamente sulla stessa natura e sulle stesse finalità delle misure di prevenzione, del tutto inaspettata e sconcertante, perché il Convegno di Alghero dell’aprile 1974 ne aveva celebrato il funerale. Richiamando F. Bricola, Forme di tutela “ante delictum” cit., p. 40 ss., sostiene che in tale sede non si esitò ad affermare che «il prevenire reprimendo ciò che non costituisce reato o ciò che, pur astrattamente costituendo reato, non si sa se si sia verificato è certamente incivile e incostituzionale»

[167] Misura prevista dall’art. 23 della L. 22 maggio 1975, n. 152 e destinata a trasformarsi, di lì a breve, in misura preventiva principale. 

[168] Così definita da T. Padovani, op.cit., p. 241, che nota come «non si tratta di reato e nemmeno di strumenti, ma si tratta di beni che possono agevolare le condotte sulle quali si appunta il giudizio di pericolosità».

[169] R. Orlandi, op.cit., p. 3.

[170] Più specificatamente, come precisa L. Capriello, op.cit., p. 6 ss., a norma del menzionato art. 18, comma 1, della legge n. 152/1076, le disposizioni della legge antimafia n. 575/1965, venivano estese anche a coloro che: 1) operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice; 2) abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n.645 (recante sanzioni contro il fascismo), e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; 3) compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista, ai sensi dell’articolo 1 della citata legge n.645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; 4) fuori dai casi indicati nei numeri precedenti, siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni (trattasi, come noto, di delitti in materia di armi), quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato. 

[171] Art. 20, L. 22 maggio 1975, n. 152.

[172] L. Capriello, op.cit., p. 6, nota come, tuttavia «l’introduzione, nel tessuto della legge antimafia, dell’applicabilità di misure di prevenzione patrimoniali – segnatamente il sequestro e la confisca dei beni – si registrava solo alcuni anni più tardi ad opera della legge del 1982, n. 646». 

[173] Il riferimento è alla L. 13 settembre 1982, n. 646, Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n.575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, approvata dal Parlamento il 13 settembre 1982, a seguito dell’omicidio del segretario del PCI regionale Pio La Torre il 30 aprile, e del Prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre, nella strage di Via Carini. 

[174] A. Manna, Il diritto delle misure di prevenzione: inquadramento sistematico e spunti critici, in Arch. Pen., n. 1, 2013, p. 8.

[175] F. Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali; La confisca allargata (art. 240-bis c.p.). Aspetti sostanziali e processuali, Vol. I, Milano, 2019, p. 491. 

[176] Art. 14, L. 13 settembre 1982, n. 646.

[177] In questo senso, T. Padovani, op.cit., p. 243., sostiene che «la l.646/1982 segna per molti profili una sorta di “processo di osmosi” tra il diritto penale propriamente detto e strettamente inteso e il c.d. diritto della prevenzione criminale».

[178] F. Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, cit., p. 492sostiene che «l’efficacia dell’istituto si esprime anche con l’adozione immediata del sequestro dei beni cui può seguire o la revoca, con restituzione all’interessato, o la confisca definitiva all’esito di un contraddittorio svolto in un procedimento più agile rispetto a quello penale».

[179] L’art. 13 della L. 13 settembre 1982, n. 646, dispone che l’art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 757, debba essere sostituito con la seguente formulazione: «la presente legge (la n. 646 del 1982) si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».

[180] Così chiamato da R. Orlandi, op.cit., p. 3.

[181] T. Padovani, op.cit., p. 245.

[182] Art. 16, L. 13 settembre 1982, n. 646.

[183] Si riporta il testo integrale dell’articolo 416-bis: «Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma. L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».

[184] S. Lodato, op.cit., p.46, riporta le parole pronunciate da Rita Bartoli, moglie del Procuratore, ad un giornalista del Corriere della Sera: «mio marito fu lasciato solo a firmare i mandati di cattura contro la cosca Spatola-Inzerillo. Qualcuno lo additò addirittura come unico responsabile di quei mandati. Lo andarono a raccontare in giro agli avvocati dei mafiosi, ai giornalisti. Il Palazzo di giustizia di Palermo si può dividere in tre parti. Il gruppetto dei magistrati impegnati contro la mafia, il gruppetto dei “chiacchierati” e la grande palude, paralizzata dalla cultura della paura, che fa da routine».

[185] S. Baudino, La legge Rognoni-La Torre, l’ideazione del pool antimafia e l’uccisione di Rocco Chinnici, 2020, in antimafiaduemila.com.

[186] S. Lodato, op.cit., p. 807.

[187] In particolare, vengono in considerazione: Corte Cost., sent. 23 marzo 1964, n. 23, in Giur. Cost., 1964, p. 193, in cui si è affermato che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione, in quanto limitative, a diversi gradi dell’intensità, della libertà personale, è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità ed all’esistenza della garanzia giurisdizionale; Corte Cost., sent. 22 dicembre 1980, n. 177, cit., con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, n. 2, L. n. 1423 del 1956 nella parte concernente coloro che, «per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere».

[188] È un aspetto che «ha da sempre rappresentato uno dei punti più difficili da affrontare e da risolvere in modo corretto, posto che esso sconta quanto di generico è insito nel concetto stesso di pericolosità sociale che sta alla base del sistema di prevenzione dello Stato. Una difficoltà che non solo ha rappresentato un elemento frenante per i tentativi di riforma legislativa della materia che in passato si sono avuti, ma che ha finito per rendere la disciplina di questo aspetto permeabile alle pressioni nascenti dalle varie “emergenze” succedutesi nel tempo». Così, G. T. Barbieri e P. Caretti, I diritti fondamentali: libertà e diritti sociali, Torino, 2017, p. 303 ss.

[189] Nella precedente versione il riferimento era ai «traffici illeciti».

[190] In precedenza, il comportamento valutato in termini sintomatici doveva indicare la propensione a determinati reati (come lo sfruttamento della prostituzione, la tratta delle donne, il contrabbando, il traffico illecito di sostanze tossiche). Con questa riformulazione l’ambito applicativo si è allargato perché il legislatore ha scelto l’utilizzazione di termini generici, tali da rendere possibile il riferimento ad una vasta gamma di reati.

[191] T. Padovani, op.cit., p. 246.

[192] La L. n. 327 del 1988 prevedeva un limite – tra tre e sei mesi – entro il quale il mancato mutamento della condotta costituiva presupposto per avanzare la proposta di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. In questi termini, F. Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, cit., p. 78.

[193] G. T. Barbieri e P. Caretti, op. cit., p. 304.

[194] Ibidem.

[195] Così interpretato da T. Padovani, op.cit., p. 248.

[196] Art. 2 della L. 19 marzo 1990, n. 55. 

[197] Da ricordare in tal senso l’inciso dell’art. 2-ter della L. n. 646 del 1982 che, inserendo il sequestro e la confisca allargata in materia di misure di prevenzione, legava i due provvedimenti: si poteva infatti disporre sequestro e confisca solo in quanto vi fosse un soggetto al quale poteva essere applicata la misura di prevenzione personale. 

[198] R. Guerrini, L. Mazza e S. Riondato, op. cit., p. 19.

[199] Art. 5 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa, conv. con modif. dalla L. 12 luglio 1991, n. 203.

[200] Art. 12 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152.

[201] Artt. 20, 22 e 23 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152.

[202] Artt. 22, 24 e 25-quater del D.L. 8 giugno 1992, n. 306.

[203] Art. 22-bis del D.L. 8 giugno 1992, n. 306.

[204] Art. 23 del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, che ha sostituito l’art. 9 dell’originaria normativa del 1956. 

[205] Così come previsto dall’art. 1, nn. 1 e 2, L. n. 1423 del 1956. 

[206] Il nuovo comma 6-bis dell’art. 2-ter della L. n. 575 del 1965, introdotto dall’art. 10 del decreto n. 92 del 2008 prevede che «le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente». La recisione del nesso di pregiudizialità tra le misure di prevenzione personali e le misure patrimoniali avrebbe dovuto consentire di assicurare la possibilità di ricorrere alle misure patrimoniali indipendentemente dalla persistenza delle condizioni personali per la loro applicazione e di prevedere, conseguentemente, la possibilità che in caso di morte del proposto, il procedimento di prevenzione patrimoniale continuasse nei confronti degli eredi quali beneficiari di un illecito arricchimento. In questi termini A. M. Maugeri, Profili di legittimità costituzionale delle sanzioni patrimoniali (prima e dopo la riforma introdotta dal decr. n. 92/2008): la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte Suprema, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, Roma, 2009, p. 39 s.

[207] E. Gallo, voce Misure di prevenzione, in Enc. Giur., XX, p. 15; G. Corso, L’ordine pubblico, cit., p. 259 ss.

[208] «Mentre nel procedimento di prevenzione personale la fase dell’indagine è già compiuta quando il procedimento giunge dinanzi all’organo giudicante, il procedimento di prevenzione patrimoniale può giungere nella fase camerale senza che sia stata svolta un’adeguata indagine patrimoniale, perché spesso per esigenze cautelari è necessario procedere prontamente al sequestro». In questi termini A. Fallone, Luci e ombre del procedimento di prevenzione patrimoniale, in Doc. Giust., 1995, n. 4, p. 610 ss.

[209] A. M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un’actio in rem?, in O. Mazza e F. Viganò (a cura di), Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica (d.l. 23 maggio 2008, n. 92 conv. in legge 24 luglio 2008, n. 125), Torino, 2008, p. 136 ss. 

[210] Art. 2-ter, comma 7, L. n. 575 del 1965.

[211] L. Capriello, op. cit., p. 8.

[212] Definita da T. Padovani, op.cit., p. 251, come un «coacervo estremamente irto e complesso di disposizioni».

[213] F. Menditto, Presente e futuro delle misure di prevenzione, cit., p. 7.

[214] D.L. 22 agosto 2014, n. 119, Disposizioni urgenti in materia di contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive, di riconoscimento della protezione internazionale, nonché per assicurare la funzionalità del Ministero dell’interno, conv, con modif. dalla L. 17 ottobre 2014, n. 146. 

[215] D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2015, n. 43.

[216]A. Manna, Il diritto delle misure di prevenzione, cit., p. 17.

[217] Ibidem

[218] A. Manna, Il diritto delle misure di prevenzione, cit., p. 20.

[219] Anche nella più recente sentenza De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017 (ai considerando 69 e seguenti), la Corte EDU evidenzia come su 34 Stati, 29 non possiedano misure paragonabili a quelle applicate in Italia e solo 5 prevedano misure di prevenzione analoghe a quelle italiane (Austria, Francia, Regno Unito, Russia e Svizzera). Al considerando 70, la Corte EDU precisa che l’Austria, la Francia e la Svizzera hanno adottato misure di questo tipo per trattare il fenomeno della violenza negli stadi, mentre il Regno Unito solo per prevenire il terrorismo. 

[220] A. A. Hayo, Misure di sicurezza e misure di prevenzione a confronto: l’incerta linea di discrimine tra la sanzione del passato e la prevenzione del futuro, nell’ottica del diritto interno e del diritto sovranazionale, in Arch. Pen., n. 3, 2017, p. 38.

[221] L. 1 ottobre 2012, n. 172, Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno.

[222] D.L. n. 119 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 194 del 2014.

[223] F. Basile, Brevi considerazioni introduttive sulle misure di prevenzione, cit., p. 1521, sostiene che la crisi di certezza ed efficacia di cui oggi soffre la pena potrebbe aver in qualche modo favorito la forte espansione conosciuta dalle misure di prevenzione negli ultimi anni, portando il legislatore e i giudici a preferirle in quanto più certe, più celeri e più efficaci. È in questo senso che ritiene che la dottrina dovrebbe riscrivere le pagine dei manuali dove si parla del “doppio binario” su cui si fonda il sistema penale, dato che questo ormai corre in realtà anche su un “terzo binario”, quello delle misure di prevenzione, il quale si sta rivelando, rispetto al binario delle pene e delle misure di sicurezza, ad alta velocità. 

[224] Il riferimento è al D.L. n.7/2015, conv. con modif. dalla L. n. 41 del 2015.

[225] Soggetti che, senza essere cittadini o residenti, si recano in Paesi dove agiscono le organizzazioni terroristiche per combattere al loro fianco o per commettere azioni terroristiche. Così, A. Balsamo, Decreto antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione, in Diritto Penale Contemporaneo, 2015, p. 1 e ss.

[226] L. 17 ottobre 2017, n. 161, Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate.

[227] S. Finocchiaro, La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche appena introdotte, in Dir. Pen. Cont., 2017, n. 10, p. 251 ss. 

[228] Si riporta il testo dell’articolo 4 del D.Lgs. 159 del 2011, come modificato dalla L. n. 161 del 2017: «I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o del delitto di cui all’articolo 418 del codice penale; c) ai soggetti di cui all’articolo 1; d) agli indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270-sexies del codice penale; e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; g) fuori dei casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lettera d); h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti. E’ finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati; i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, nonché alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’incolumità delle persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive; i-bis) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 640-bis o del delitto di cui all’articolo 416 del codice penale, finalizzato alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis del medesimo codice; i-ter) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 612-bis del codice penale».

[229] F. Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, cit., p. 17.

[230] S. Finocchiaro, op.cit., p. 256.

[231] K. Tassone, La costante riforma del codice antimafia: un cantiere aperto, in Dir. Pen. Cont., 2019, p. 1 ss. 

[232] In tal senso, la riforma ha previsto, all’art. 41, comma 1-quinquies, la partecipazione della difesa del proposto alla camera di consiglio in seguito alla quale il tribunale decide se approvare o meno le proposte dell’amministrazione giudiziaria sulla prosecuzione dell’attività. 

[233] Si iscrivono in questa direzione la disciplina dell’incompetenza territoriale e dell’eccezione di incompetenza funzionale dell’autore della proposta, l’efficacia degli elementi medio tempore acquisiti, la previsione di sezioni specializzate in sede distrettuale, sia in primo che in secondo grado, per la celebrazione dei giudizi di prevenzione. 

[234] Corte EDU, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, n. 43394/09, in coe.it.

[235] C. M. Pellicano, La sentenza De Tommaso e gli interventi correttivi della Corte di Cassazione, 2018, in magistraturaindipendente.it.

[236] Il riferimento è al Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, che riconosce alcuni diritti e libertà oltre a quelli che già figurano nella Convenzione e nel Protocollo addizionale alla Convenzione. In particolare, l’art. 2 fa riferimento alla libertà di circolazione esprimendosi in tal senso: «Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza. Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio. L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui. I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica».

[237] F. P. Lasalvia, Il sasso nello stagno: luci “europee” e ombre “nazionali” su una sentenza “storica”? Appunti su Cedu De Tommaso c. Italia, in Arch. Pen., n. 1, 2017, p. 10.

[238] Si ricorda in tal senso, Corte Cost., sent. 22 dicembre 1980, n. 177, cit., che ebbe a sostenere che sarebbe stato fondamentale, ai fini della determinatezza delle categorie soggettive, che la «descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondamentalmente dedursi un giudizio prognostico».

[239] R. Magi, Misure di prevenzione: l’evoluzione della giurisprudenza, in Il libro dell’anno del diritto 2019 Treccani (diretto da R. Garofoli e T. Treu), Roma, 2019, evidenzia che sono state collocate all’interno del codice penale, con il D. Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, in attuazione del principio di delega della riserva di codice in materia penale, alcune disposizioni correlate al sistema di prevenzione, in particolare per quanto riguarda le disposizioni penalistiche della intestazioni fittizia di beni e della confisca estesa.

[240] Uno dei riferimenti è a Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 40076, in Cass. Pen., 2018, p. 2348, che ha valorizzato le indicazioni contenute nella pronuncia della Corte europea, modificando il proprio precedente consolidato indirizzo e giungendo ad affermare che l’inosservanza delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma 2, d,.lgs n. 159 del 2011, in cui il contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; e che la predetta inosservanza può tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione. In questi termini E. Aprile, OsservazioniNota a Corte Costituzionale, 27 febbraio 2019, n.24, in Cass. Pen., 2019, p. 1886. 

[241] G. La Corte, La disciplina delle misure di prevenzione, tra passato e presente, al vaglio (nuovamente) della Corte Costituzionale, in giurisprudenzapenale.com, n. 6, 2019, p. 7. 

[242] G. Marino, Inosservanza delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi»: disciplina incostituzionale?, Nota a Corte Costituzionale, 27 febbraio 2019, n.25, in Dir. & Giust., 2019, p. 3.

Autore: Simone Aprea
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